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Data: 24/08/2009
Settore:
Previdenza Complementare
PREVIDENZA COMPLEMENTARE, UN CAMBIO DI MARCIA PER LE PENSIONI INTEGRATIVE - Intervista a Marcello Messori: «Fino a oggi non hanno funzionato proprio per chi ne ha più bisogno»

I lavoratori iscritti alle varie forme di previdenza complementare sfiorano i cinque milioni, 4.900.497 per la precisione. Meno della metà (poco più di 2 milioni) sono iscritti ai fondi pensione negoziali, detti anche fondi chiusi perché riguardano esclusivamente determinate categorie o addirittura determinate aziende. L'età media dell'iscritto ai fondi pensione oscilla intorno ai 45 anni. I grandi assenti sono ancora i giovani, ovvero coloro che in teoria avrebbero più bisogno di un meccanismo di previdenza complementare visto che la loro pensione pubblica - alla luce delle riforme che hanno drasticamente ridotto il tasso di trasformazione - sarà poca cosa. Esclusi completamente dai fondi pensione (fatta eccezione per la scuola) tutti i dipendenti pubblici, mentre i fondi pensione negoziali si sviluppano - come dice il termine stesso - solo laddove esiste un negoziato con le controparti: rimangono perciò fuori la stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese e tutto il vasto mondo del precariato. Insomma per la previdenza complementare c'è ancora moltissimo da fare, nonostante le rassicurazioni del governo e in particolare del ministro Sacconi. Nel frattempo la crisi finanziaria è passata come un tornado e ha abbassato i rendimenti di tutti gli strumenti di risparmio previdenziale. Come stanno dunque le cose? Quali sono le prospettive e su che cosa bisognerebbe intervenire? Abbiamo girato queste domande a Marcello Messori, economista, docente universitario, presidente di Assogestioni e grande esperto di fondi pensione.

Rassegna Messori, la relazione annuale della Covip fotografa un sistema ancora in movimento, abbastanza provato dalla crisi e in cerca di aggiustamenti. È sufficiente davvero una manutenzione ordinaria come ha detto il nuovo presidente della Covip, Antonio Finocchiaro, o servirebbe qualcosa di più?

Messori I dati, offerti dalla Covip nella Relazione annuale, mostrano una tenuta del sistema di previdenza complementare, ma su dimensioni inadeguate a integrare le future pensioni pubbliche dell'insieme dei lavoratori italiani. Certo, dal secondo trimestre del 2007 la crisi finanziaria ha frenato il processo di crescita innescato dall'adozione della nuova normativa; va tuttavia sottolineato che, anche nel semestre precedente la crisi, il ritmo delle adesioni era stato inferiore alle aspettative politiche. Fatto è che, oggi, il tasso di adesione rimane modesto (circa il 20%); e, cosa ancora più grave, la distribuzione degli iscritti continua a penalizzare sia i giovani sia i dipendenti delle imprese piccole e mediopiccole. Prendiamo i dati relativi ai fondi pensione contrattuali e mettiamoli a confronto con la distribuzione dell'occupazione per dimensione di impresa e per età. Questo confronto è molto negativo in termini di iscritti ai fondi pensione sia per le imprese fino a 50 addetti sia per le fasce di età fino a 34 anni; permane negativo nelle imprese di piccolo-media e media dimensione, diventa positivo solo nelle imprese oltre i 500 dipendenti e nelle fasce di età fra i 35 e i 54 anni.

Del resto stime relative al 2007 mostravano che il tasso di partecipazione a una forma di previdenza complementare era inferiore al 10% nelle imprese al di sotto dei 50 addetti; e i dati della Covip pongono ora in evidenza che, nel corso del 2008, il peso degli aderenti in quella fascia dimensionale e nella fascia immediatamente superiore è diminuito. Si tratta di tendenze molto preoccupanti per la tenuta sociale del sistema pensionistico italiano. La caratteristica contributiva e l'attuazione graduale della riforma Dini di metà anni Novanta implicano, infatti, che l'integrazione della pensione pubblica è essenziale per i lavoratori più giovani e per gli occupati con posizioni precarie e temporanee. Ma questi ultimi si concentrano proprio nelle fasce a basso reddito del lavoro autonomo e nelle piccole e piccolo-medie imprese; inoltre, vari indicatori mostrano la forte correlazione fra giovane età e precarietà occupazionale. La conclusione è sconfortante: finora la previdenza complementare italiana ha funzionato per chi ne aveva meno bisogno e ha fallito nei confronti dei lavoratori che non avranno un'adeguata pensione pubblica.

Rassegna Quali sono i motivi principali di questa situazione? Come mai i giovani non aderiscono alla previdenza complementare? Non si fidano?

Messori I motivi sono molteplici. Il principale è legato al basso reddito e all'instabilità lavorativa. Un giovane, che ha un salario o uno stipendio poco al di sopra della sopravvivenza sociale e un contratto a termine, incontra ovvie difficoltà materiali e psicologiche nel progettare un risparmio per la pensione futura; i problemi correnti sono così assorbenti da cancellare la preoccupazione per il futuro. Un secondo motivo, messo in evidenza da varie ricerche empiriche anche recenti, riguarda la percezione soggettiva che i giovani hanno del tasso di copertura della loro futura pensione pubblica rispetto al reddito da lavoro (il cosiddetto tasso di sostituzione): forse fuorviati dalla pensione dei loro genitori, la maggior parte dei giovani si aspetta un tasso di sostituzione molto più elevato di quello che otterrà effettivamente. Vi è infine un motivo legato all'organizzazione della previdenza complementare in Italia. Come mostra il successo dei fondi pensione contrattuali nelle grandi imprese o anche nei settori di grande impresa, il grado di sindacalizzazione è un fattore decisivo per l'adesione ai fondi pensione contrattuali. Nelle piccole e piccolo-medie imprese e nella vasta area del precariato la presenza del sindacato è debole; e se non c'è il sindacato, non vi sono neppure forti fondi pensione contrattuali. Tale analisi mi porta a sostenere la possibilità di interventi sul secondo e terzo motivo. Il secondo va contrastato con un'adeguata campagna informativa; il terzo va superato con una riorganizzazione del secondo pilastro. Bisogna però correre presto ai ripari se non si vuole creare una coorte di futuri pensionati poveri.

Rassegna In che senso? Cosa vuol dire oggi correre ai ripari in una situazione di crisi e d'incertezza come quella che stiamo vivendo?

Messori I dati della Covip confermano che, sia negli anni con bassa disoccupazione sia negli anni di crisi, la presa dei fondi pensione contrattuali è molto elevata nel caso di fondi aziendali e soddisfacente nei settori con grande e media impresa; tale presa è, viceversa, del tutto inadeguata per i settori di piccola e piccolo-media impresa e per i comparti con prevalenza di lavoro autonomo. Abbiamo però visto che per i giovani, per i precari e per la miriade di lavoratori occupati in imprese piccolo-medie e piccole c'è bisogno di un pilastro complementare robusto. Ovviamente, vi sono molte strade aperte per incentivare il tasso di adesione di queste fasce "deboli" di lavoratori. Una strada virtuosa è quella aperta dalle iniziative intraprese, negli anni passati, dalla regione Trentino-Alto Adige. In quella regione sono stati sperimentati incentivi per l'adesione dei giovani, forme di copertura pubblica temporanea dei contributi per i lavoratori disoccupati, e così via. Il difetto di tali iniziative è che la loro trasposizione a livello nazionale implicherebbe un onere insopportabile per il bilancio pubblico. Una via alternativa, e non costosa per il bilancio pubblico, è quella di accrescere il tasso di partecipazione alla previdenza complementare da parte delle fasce di lavoratori in esame mediante il ricorso ad altre forme previdenziali. Almeno nel caso dei lavoratori dipendenti di piccola e piccolo-media impresa e delle fasce a basso reddito dei lavoratori autonomi più vicine al lavoro dipendente, l'alternativa più adeguata ai fondi contrattuali è rappresentata dall'adesione in forma collettiva ai fondi pensione aperti. Quest'ultima tipologia di fondi si può avvalere di canali distributivi che, pur essendo costosi, dovrebbero assicurare una migliore capacità di penetrazione in quelle realtà decentrate dove i fondi pensione contrattuali hanno finora fallito. Inoltre, i fondi aperti sono spesso collegati a gruppi bancari che intrattengono vari rapporti finanziari con le imprese; il che potrebbe attenuare le resistenze imprenditoriali a rinunciare al Tfr. Inutile nascondere che anche la possibile alternativa, offerta dall'adesione collettiva ai fondi aperti, pone problemi. Innanzitutto, i costi di distribuzione sono significativi e restano a carico degli aderenti; in secondo luogo, i legami fra offerta di servizi previdenziali e di servizi finanziari possono determinare conflitti di interesse che vanno controllati. Sono da tempo convinto (ben prima di assumere la presidenza di Assogestioni, per dichiarare, ma al contempo circoscrivere, il mio attuale conflitto di interesse) che questi due problemi, che pure vanno vagliati e limitati, non bastino a cancellare i vantaggi di una maggiore diffusione dell'adesione collettiva ai fondi aperti.

Rassegna Questa proposta non rischia di suonare come una sorta di sconfitta della scommessa sindacale sulla previdenza complementare? Quali effetti potremmo prevedere in caso di una diffusione maggiore di questi strumenti?

Messori Prima di tutto, se si riuscisse a far decollare l'adesione collettiva ai fondi pensione aperti, sarebbe opportuno innovare nella governance di tali fondi. Come sostengo da molti anni, i fondi contrattuali assicurano un'adeguata partecipazione degli aderenti ma palesano deficit di competenza; i fondi aperti invece non riconoscono uno spazio adeguato agli aderenti. Si tratta di uno dei punti cruciali per distinguere l'investimento previdenziale da un investimento puramente finanziario. Pertanto la riorganizzazione del secondo pilastro previdenziale, che sarebbe necessaria per sviluppare le adesioni collettive ai fondi aperti (per tutte, la contribuzione datoriale), potrebbe essere anche l'occasione per riforme nella governance di ambedue i tipi di fondi pensione, così da rafforzare le competenze negli organi amministrativi dei fondi contrattuali e la partecipazione e il controllo degli aderenti sull'attività dei fondi aperti. Una previdenza complementare più forte e capace di attirare anche le fasce "deboli" di lavoratori non sarebbe una sconfitta ma, a mio avviso, un successo del sindacato e della parte datoriale.

Rassegna C'è però l'evidenza dei rendimenti, oltre quella dei costi. Finora infatti i fondi pensione aperti (e a maggior ragione le polizze individuali) hanno costi di gestione superiori a quelli dei fondi negoziali. E questi costi si scaricano poi sui rendimenti finali. Inoltre sembra che i fondi chiusi abbiano avuto la capacità di reggere meglio l'impatto della crisi?.

Messori Se si considera l'organizzazione della nostra previdenza complementare, appare evidente che gli amministratori dei fondi pensione aperti coincidono con i gestori dei portafogli dei fondi pensione contrattuali. Sarebbe pertanto sorprendente se, a parità di composizione dei portafogli, vi fossero scarti significativi fra rendimenti - al lordo dei costi - fra questi due tipi di fondi pensione. I dati ci dicono, peraltro, che i fondi contrattuali hanno retto meglio alla crisi in termini di rendimenti netti. La spiegazione, al riguardo, è duplice. In primo luogo, a differenza dei fondi aperti, i fondi contrattuali non hanno apprezzabili costi di distribuzione; in secondo luogo, in media la composizione dei loro portafogli è più prudenziale rispetto a quella dei fondi aperti. Il primo elemento è un indubbio fattore di vantaggio dei fondi contrattuali; la scommessa è che, mediante l'adesione collettiva, i fondi aperti riescano a ridurre (anche se non ad annullare) i loro costi di distribuzione. Il secondo elemento non può essere valutato in un arco di tempo breve, specie se caratterizzato dalla più grave crisi finanziaria del secondo dopoguerra. Siamo sicuri che, con un orizzonte trentennale, un giovane aderente ai fondi pensione debba scegliere un portafoglio molto conservativo? In ogni caso, nel suo complesso il sistema della previdenza complementare ha offerto buoni rendimenti netti ai suoi aderenti. Sebbene fra il 1999 e il 2009 vi siano stati i due peggiori shock finanziari degli ultimi quarant'anni, nel primo decennio della loro vita i nuovi fondi pensione hanno realizzato rendimenti medi netti superiori a quelli del Tfr, specie se si tiene conto - come si deve fare - del trattamento fiscale favorevole e del contributo datoriale. La crisi finanziaria, che stiamo vivendo, ci ha però insegnato che è necessario tutelare il momento dell'uscita per pensionamento dei diversi aderenti alla previdenza complementare.

Due lavoratori, con profili pensionistici identici e con un identico montante versato, potrebbero ottenere una pensione complementare molto diversa se entrassero in momenti diversi nel mercato del lavoro e nell'età pensionistica. Per esempio: il lavoratore, che entrasse in età pensionistica in una fase di mercati finanziari vicini al massimo, otterrebbe una rendita molto più elevata del suo gemello, che raggiungesse l'età pensionistica in una fase di mercati finanziari vicini al minimo. È necessario intervenire per evitare una sperequazione così grave. Il mio suggerimento è di spingere i fondi pensione con adesione collettiva (ossia: contrattuali e aperti) a costituire un fondo liquido mediante la fissazione di un "corridoio" di rendimenti: quando il rendimento annuale di mercato supera il tetto del corridoio, il fondo viene alimentato dalla differenza positiva; quando il rendimento annuale di mercato va al di sotto del pavimento del corridoio, il fondo viene ridotto della differenza negativa. Tale perequazione dei rendimenti nel tempo potrebbe applicarsi ai soli aderenti che scelgono portafogli tipo life cycle, ossia che modificano la loro composizione finanziaria a seconda dell'orizzonte temporale residuo dell'aderente. Per evitare che un fondo pensione si trovasse con un fondo liquido negativo, si potrebbe prevedere una garanzia di ultima istanza da parte dello Stato. Tale garanzia, temporanea, dovrebbe rispondere a regole predefinite e precise per minimizzare comportamenti opportunistici da parte di alcuni fondi pensione.

(*) intervista e commento a cura di Rassegna Sindacale

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