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Data: 23/07/2006
Testata giornalistica: La Repubblica
"Io sconfitto? Ho appena iniziato adesso tocca a professioni e tv" Parla il ministro Bersani che annuncia la fiducia sulle liberalizzazioni

"VADO AVANTI. Tratto, ma state tranquilli che non torno indietro. E come dice Monti, non alzo le mani, alzo la posta. Sul decreto liberalizzazioni sono favorevole a mettere la fiducia. Non perché ci sia un problema di tenuta della maggioranza, che invece su questo tiene benissimo. Ma per ragioni di tempo: voglio che il decreto sia convertito in legge entro la fine di luglio. Sarebbe un segnale importantissimo per tutto il Paese". Dunque a sentire Pierluigi Bersani la "rivoluzione liberale" del centrosinistra non solo non è finita con le sportellate dei tassisti, ma è appena cominciata".

Quella "rivoluzione liberale" non è stata fermata da quattromila, scalmanati tassinari romani. Bracci operativi (in qualche caso anche violenti, oltre che tatuati con il simbolo della X Mas) dell'irriducibile "partito Nimby" che da mezzo secolo taglia trasversalmente la società italiana. Sì alle riforme, sì al mercato. Ma appunto: "Not In My Back Yard", "non nel mio cortile". Il decreto legge sulle liberalizzazioni, picconato nelle piazze non solo dai tassisti ma anche dai farmacisti, dagli avvocati e dai panificatori, da questa settimana rischia un piccolo Vietnam anche nelle aule del Senato. Ma il ministro delle Attività Produttive è tutt'altro che rassegnato. Non lascia, ma si dichiara pronto a raddoppiare.

"Nel dibattito parlamentare - dice - faremo ovviamente qualche aggiustamento. Ma potremmo anche introdurre qualche altra novità, a vantaggio del consumatore". E chiarisce anche che questo decreto è solo il primo passo, verso una società più aperta e un'economia più concorrenziale: "Abbiamo varato la legge delega sulla liberalizzazioni dei servizi pubblici locali che cambierà le regole di un settore nevralgico come quello dei trasporti, e sulla class action che investirà settori sensibili come l'energia. Io sto già scrivendo i decreti delegati. Vi dò appuntamento tra qualche mese, quando liberalizzeremo l'energia, e insieme a Mastella faremo la riforma degli ordini professionali, insieme a Gentiloni quella delle telecomunicazioni, delle tv e del mercato pubblicitario. O quando compreremo l'aspirina al supermercato, o tratteremo il risarcimento dell'incidente d'auto direttamente con la nostra compagnia. Allora sì che si capirà cosa sono le riforme di Bersani...". Il ministro si sente tutt'altro che sconfitto. "Sconfitto? Ho appena cominciato a giocare...". Adesso nega anche di aver strappato un modesto "pareggio" ai feroci tassinari della Capitale. "E vero, forse ho avuto troppo fair play, a dire che avevamo pareggiato. Ma non toccava a me dire la verità: e cioè che il governo ha vinto, e ha vinto bene...".

Il ministro "industrialista", piacentino e pragmatico, non nasconde il suo rammarico, per come è stato assistito in quella delicata trattativa. La convocazione a Palazzo Chigi da parte di Prodi, all'indomani della firma dell'accordo, lo ha un po' spiazzato. Le critiche di Rutelli, che "deluso" si aspettava "più liberalizzazioni", lo hanno ferito. Le mosse di Veltroni, che mentre il ministero chiudeva le porte ai camioneros capitolini intavolava trattative autonome, lo hanno irritato. Le intemerate di Mercedes Bresso, che si chiedeva "e adesso io come difendo la Tav?", lo hanno fatto infuriare.

"Non faccio polemiche con Prodi, ci mancherebbe altro. Anche se quando c'è una guerra mi aspetto sempre che il generale, per prima cosa, difenda sempre i suoi soldati... Comunque, se non c'era Romano quel decreto non lo avremmo mai potuto presentare, come già successe nel '97 con la liberalizzazione del commercio. Ma per il resto ne ho per tutti, quando questa storia sarà finita. Ho una lista lunga così, di gente con la quale mi devo chiarire. Gente che si è mossa per piccoli opportunismi di bottega. Gente che parla senza sapere, o che ha perso un po' la memoria. La Bresso me la ricordo bene quando a guidare la trattativa e a difendere la Tav c'ero proprio io, e lei stava dall'altra parte del tavolo, come presidente della Provincia...".

L'Italia è così. Più che un partito, un "Paese Nimby". "Ma le cose cambiano, eccome se cambiano...", dice Bersani. "Lasciamo perdere i taxi, dove abbiamo ottenuto quello che vogliamo, e basterebbe leggere i termini dell'accordo per rendersene conto. Ma nell'economia del decreto legge, la questione dei taxi ha un valore più che altro simbolico. Nel merito, quello che conta sul serio è tutto il resto. E che interveniamo a beneficio dei clienti-consumatori in settori finora intoccabili. Sposteremo il conto in banca, e non pagheremo più un euro. Riscuoteremo l'indennizzo direttamente dalla nostra compagnia d'assicurazione, che ci dirà anche qual è il carrozziere che ci fa più sconto, così non ruba più nessuno, visto che in Italia rubano sempre in troppi. Andremo al supermercato a comprare i farmaci da banco. Compreremo il pane da chi lo fa più buono, e se ci riesco introdurremo una modifica che permetterà ai ragazzi di mettersi anche a sedere dentro al panificio, quando all'alba si vanno a mangiare i cornetti appena sfornati. Parliamoci chiari: quando tutto questo sarà legge, la mia missione sarà compiuta, io sarò a posto per la vita...".

Quello che conta è la svolta culturale. Che per Bersani c'è eccome, dentro il decreto. Nonostante tutte le modifiche e tutti gli aggiustamenti. Una svolta culturale che incide, ampliandola e arricchendola, sulla constituency politica del centrosinistra. "Guardate al dibattito che si è aperto dopo il decreto - riflette il ministro - e capirete tutto: per la prima volta, ho dimostrato che liberalizzare è di sinistra, e che su questi provvedimenti c'è una vastissima adesione sociale. Ho dimostrato che il senso comune è pronto, per questo tipo di modernizzazione culturale. E questo resta, al di là delle polemiche sui taxi". Non solo resta.

Ma per Bersani questa è o deve diventare la natura stessa del riformismo del centrosinistra. "Io forse sarò troppo emiliano, ma resto convinto che il riformismo si forgia nel fuoco della battaglia quotidiana, nel confronto e nella decisione sulle cose concrete. Riformismo, per me, non vuol dire né cedere, né eccedere. La tecnica delle riforme è costanza e tenacia nel cambiamento. Non è che dormiamo per mesi, e poi all'improvviso ci svegliamo e per dimostrare che siamo bravi pigliamo a cazzotti i tassisti o gli avvocati, e dopo ci rimettiamo a dormire per altri sei mesi. Non si fa così, almeno non dalle mie parti".

E non è un caso che, su questo modello di riformismo all'emiliana, Bersani ha sentito vicino un altro padano "anomalo": pensate un po', proprio quel Cofferati con il quale pure ha discusso tante volte ai tempi della Cgil: "E vero, Sergio è stato l'unico che ha capito davvero cosa è successo e quanto abbiamo ottenuto con la vertenza sui taxi. E l'ha capito perché sa bene, per averlo sperimentato in prima persona, che le riforme si discutono e si realizzano sul campo. Con la pratica, e senza l'ideologia".

E qui si innesca un ragionamento più largo, che chiama in causa l'identità del centrosinistra. In un'epoca in cui la "classe" non esiste più, in una fase in cui il mitico "ceto medio" vuol dire tutto e niente, il vero soggetto debole, nell'arena del mercato, è il cittadino-consumatore, che diventa il paradigma di una nuova rappresentanza sociale. Non necessariamente tipica di forze anti-politiche consumeriste e autoreferenziali, alla Ralph Nader.

Al contrario, è terreno fertile per i partiti "vecchi" (Ds e Margherita, per restare nel centrosinistra) ma anche e soprattutto per quelli nuovi (come il partito democratico). Ed è materia feconda, che esula dal binomio classico radicale/moderato, perché nella visione bersaniana certe riforme sono o possono essere tutte e due le cose insieme. "Il partito democratico - sostiene il ministro - è prima di tutto una grande operazione di cambiamento della cultura politica, e solo dopo diventa un problema di organizzazione e di organigramma. Si costruisce con le scelte concrete, cioè con riforme che non cadono dall'alto ma entrano e cambiano la società e la vita della gente. Se tutto il dibattito sul nuovo partito si avvita sulla dialettica tra burocratismo e partecipazionismo, si disperdono solo energie, invece di accumularne".

Per questo, nel "Paese Nimby", il processo delle riforme deve essere come una goccia cinese. Magari lento, ma continuo e inesorabile. "Non ci fermiamo - aggiunge Bersani - e nei prossimi giorni la sfida sul mio decreto può dimostrare che se c'è consenso sociale e tenuta parlamentare non c'è lobby che tenga". Né sonno né cazzotti, insomma. No al riformismo "ciclotimico", secondo la felice definizione di Luciano Vandelli ("Psicopatologia delle riforme quotidiane", Il Mulino). No allo stop and go di un governo che in certi momenti diventa frenetico, dispone, vota, approva articoli su articoli, "con l'eccitazione di Bianconiglio di Alice". E poi, altrettanto all'improvviso, si ferma, affonda nella flemma, dubita, esita, attende, e rinvia, "con la neghittosità di Oblomov".

Non è di questo che ha bisogno, il "Paese Nimby": non è per questo che ha accettato di fare il ministro, l'emiliano Pierluigi. Che poi ce la faccia, è tutt'altro discorso. Ma almeno ci prova. E non è poco.

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