Pure Hollande con il professore
«Ha raddrizzato il Belpaese»
Il Ppe chiede al premier di scendere in campo, anche Berlusconi insiste: guidi i moderati
Giallo sul pressing della Merkel. Bersani: serve chiarezza. Vertice Casini-Montezemolo
ROMA Il Partito popolare europeo, rischiando un’invasione di campo nella politica italiana, ha invitato Mario Monti a candidarsi premier in vista delle elezioni. E anche Silvio Berlusconi ieri lo ha sostenuto: guidi i moderati. Cosa che pensano, con maggiore prudenza, José Manuel Barroso e il capo dell’Eurogruppo Jean-Claude Junker. È giallo, comunque, sull’invito di Angela Merkel a Monti. Bersani chiede «chiarezza». Vertice tra Casini e Montezemolo.
IL RETROSCENA
E non perché semplicemente invitato. Wilfrid Martens ha voluto avvalorare la tesi dell’invito formale per non mettere in imbarazzo Monti. Ma mercoledì sera il presidente del Ppe ha telefonato al professore e gli ha fatto un discorso che è suonato più o meno così: se ti invitassimo al vertice di domani, presente Berlusconi, per parlare della situazione italiana, del pericolo del populismo e della necessità di dare una guida autorevole ai vostri moderati, tu verresti? La risposta è stata un secco sì. Sì a partecipare al processo a Silvio Berlusconi. Sì a ricevere una sorta di incoronazione. Sì a parlare con Angela Merkel e gli altri leader europei, appunto, del Monti dopo Monti. Sì a rinunciare alla patina di neutralità per alzare la bandiera del Ppe.
Una scelta, quella del premier, che non è frutto dell’emotività o della vanità. Che non è figlia del rancore per quella «sfiducia radicale e sostanziale» servitagli dal Cavaliere. Ma è un passo ulteriore verso la discesa in campo con l’ambizione di unire i moderati «senza Berlusconi». A Monti, infatti, l’ipotesi di andare al Quirinale dopo le elezioni non convince. L’ha detto chiaro a Pier Luigi Bersani lunedì 3 dicembre. Al segretario del Pd - fresco della vittoria alle primarie - che gli prospettava un patto per spedirlo sul Colle, il professore ha rivelato di preferire l’impegno di governo. Le parole: sono lusingato, ma non intendo assumere un ruolo di garanzia. Questo Paese ha bisogno di riforme.
Ebbene, Monti ritiene di essere l’uomo giusto per portare avanti le riforme. Perché è convinto di aver dimostrato «di saper fare questo lavoro». Perché questo gli chiedono i leader europei e Barack Obama: «E forse non sarebbe male dare un segnale, una prospettiva di continuità per il dopo-elezioni», dice uno dei suoi. Perché per Monti fanno il tifo gli industriali nostrani, la Santa Sede e vaste aree del centro moderato.
Ci sono due dilemmi che impediscono ancora al presidente del Conaiglio di annunciare al mondo la sua discesa ufficiale in campo. Il primo: il patto di stima e di fiducia con Bersani. «Non è un passo da poco passare all’improvviso da alleati ad avversari. Soprattutto alla vigilia del varo di una legge importante come quella di stabilità», dice uno dei collaboratori di Monti.
Ma a Bruxelles, con buona pace di Bersani, perfino il socialista Francois Hollande fa il tifo per il professore: «Mario ha permesso all’Italia di raddrizzarsi e di farsi rispettare», ha detto il presidente francese stringendogli la mano all’ingresso del summit a beneficio dei fotografi. Il secondo dilemma: vincere le elezioni senza la Lega non è impresa facile. E comunque, a meno di miracoli, della partita dovrebbe far parte Berlusconi. Una compagnia che il premier non gradisce. Anzi.