Bagarre pure sul taglia-firme. Passa l’emendamento La Russa
il Pd insorge. Il sì al decreto slitta ad oggi e rischia di insabbiarsiL’ultimo parere necessario al varo delle norme
sull’incandidabilità dei condannati bloccato in Senato
LA POLEMICA
ROMA E’ caos, tra Camera e Senato, su liste pulite e decreto elettorale. Palazzo Montecitorio e palazzo Madama sono stracolmi e traboccano di parlamentari. La XVI legislatura volge al termine e, come avviene quando il Natale è alle porte, tutti vogliono tutto. Al Senato, per dire, il governo Monti chiede il via libera finale per quella che dovrebbe essere, in teoria, una pura formalità. Infatti il decretio legislativo sulle incandidabilità (divieto di ricoprire cariche elettive e di governo per i condannati in via definitiva) aspetta, per essere varato in via definitiva dall’esecutivo, solo l’ok della commissione Bilancio del Senato e – ma questo lo si scoprirà solo in serata - anche dell’omologa Bilancio della Camera. L’ok però non arriva. Il senatore-presidente della Bilancio al Senato, però, Antonio Azzolini è, guarda caso, un esponente del Pdl. Lui, interpellato, alzate braccia e occhi al cielo, commenta: «Abbiamo tante cose da ratificare. Accordi internazionali, legge di stabilità...». Traduzione: ci vuole il tempo che ci vuole. Amen.
L’ALLARME DEL VIMINALE
Il ministro dell’Interno Cancellieri, sottolineata «la grandissima sensibilità e attenzione della Camera e delle due commissioni del Senato» che hanno già dato il parere, si dice fiduciosa e rimarca: «Non è provvedimento di spesa». Il Pd, invece, sospetta il dolo da parte del Pdl e il caso monta subito, ma in serata un altro senatore democrat, Mauro Agostini, rassicura: «Il parere della commissione arriverà oggi». Ergo, le liste pulite ci saranno. Bagarre pure alla Camera. Qui, però, il caso è delicato quanto intricato. Arriva di mattina a Montecitorio, fresco fresco dal Cdm della sera prima, il decreto recante «disposizioni urgenti per lo svolgimento delle elezioni»: dovrebbe passare in un amen. Sancisce il drastico dimezzamento delle firme che ogni lista, partito o movimento deve raccogliere per potersi presentare alle elezioni.
LE QUOTE
Con queste specifiche quote: decurtazione del 50% (60 mila firme) per tutti i partiti e movimenti rimasti fuori da questo Parlamento: Movimento Cinque Stelle, Arancioni, Destra di Storace, Sel di Vendola, Verdi, Prc. Decurtazione del 60% (48 mila firme), invece, per chi in Parlamento ci siede. Con un aiutino ulteriore: la decurtazione scatta non solo per chi ha gruppi parlamentari costituiti, e in entrambe le Camere, dall’inizio della legislatura, ma anche in una sola delle due. E’ il caso di Udc, Fli, Pt e degli ex-Responsabili alla Camera, e di Coesione nazionale al Senato, ma anche di chi ha componenti parlamentari riconosciute e costituite in una delle due Camere. E’ il caso di Udc-Autonomie al Senato che, però, si fa notare dall’Udc, è un gruppo autonomo e regolarmente costituito sin dal 2008.
L’OSTRUZIONISMO DEMOCRAT
Il casus belli scoppia, però, quando Ignazio La Russa, reduce dalla fondazione-lampo del suo Centrodestra nazionale, propone un emendamento pro domo sua: anche i partiti costituiti, entro il giorno dell’approvazione del dl, in gruppi parlamentari possono evitare – e del tutto - la raccolta firme. In commissione Affari costituzionali e nel Comitato dei Nove si vota e la proposta passa, con il consenso di Pdl, Udc, Fli e Pt, mentre Pd e Idv votano contro. Il Transatlantico ribolle, nel Pd monta la rabbia: «Il salva La Russa non passerà mai, il decreto può pure decadere». Panico. Se il dl decade, produrrà comunque i suoi effetti e il rischio caos è garantito, sospira il sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento Giampaolo D’Andrea. Mauro Libé (Udc) s’incarica di mediare con il Pd e il Pdl. In serata mentre il ministro Cancellieri tuona che il dl va «assolutamente convertito in legge, i partiti trovino loro l’accordo», la conferenza dei capigruppo apre uno spiraglio: riduzione ulteriore del numero delle firme necessarie del 75% e non più del 50%. Oggi si vedrà.