La risolutezza con la quale ieri Silvio Berlusconi ha ribadito la necessità che Alitalia non passi sotto le insegne francesi, pena la cancellazione delle rotte italiane dalla mappa del turismo globale, fatica a conciliarsi con le parole che egli pronunciò nell’autunno del 2008: fu proprio lui, di fronte alla cordata dei 20 imprenditori italiani che insieme ad Air France rifondarono con 1 miliardo di denari freschi la nostra compagnia di bandiera, a benedire un patto che già aveva in sé l’epilogo dell’avventura. Il fatto di aver concesso alla compagnia francese il diritto di prelazione nell’eventualità di uno scioglimento della cordata - e di ciò sicuramente Berlusconi era informato, vista l’eco che la vicenda ebbe sulla stampa - segnava fin dai primi passi un percorso che solo una diversa evoluzione della crisi avrebbe potuto mantenere entro i binari dell’italianità.
La violenta recessione che ha colpito gran parte dell’Occidente, con forti ripercussioni anche sulle compagnie aeree (persino la solida Air France è stata costretta ad avviare una pesante ristrutturazione), ha modificato profondamente i loro modelli di business, condizionati anche da un costo sempre più esasperato del carburante, per cui oggi solo aziende con una massa critica adeguata e un giro d’affari sostenuto riescono a chiudere bilanci in attivo, peraltro con profitti non sempre esaltanti. Ora, non v’è dubbio che in questi quattro anni di gestione della cordata italiana - che subito si affidò a un amministratore delegato di valore come Rocco Sabelli - Alitalia abbia centrato alcuni obiettivi di risanamento impensabili, considerato il periodo. Basti ricordare che a fronte di un fallimento pressoché certo, grazie all’intervento dei privati alla fine sono stati salvati oltre 14 mila posti di lavoro (se si considera l’indotto diretto e indiretto si arriva a circa 50 mila). Ma evidentemente non è bastato a risolvere il problema, se è vero che anche nel 2013 la compagnia presieduta da Roberto Colaninno, pur non essendo nelle condizioni disastrate descritte anche di recente da alcuni quotidiani, se non parteciperà a processi di aggregazione con compagnie globali o non realizzerà operazioni straordinarie (come ad esempio lo scorporo della divisione Mille Miglia-Freccia Alata) chiuderà il bilancio ancora in rosso per svariate decine di milioni.
La strada verso Air France appare dunque segnata. E quand’anche vi fossero proposte alternative (ma non le sciocchezze circolate in queste settimane di una possibile integrazione nelle Ferrovie dello Stato o di un ingresso nel capitale da parte della Cdp), esse non potranno che venire da compagnie con forzieri robusti e rotte fortemente rodate. E comunque, grazie anche al 25% del capitale già in portafoglio e agli accordi commerciali stretti in questi anni, a condurre le danze non potrà che essere la compagnia francese.
Se si fosse davvero cercato un epilogo diverso, quanti spinsero in questa direzione - a cominciare da Berlusconi - avrebbero dovuto indicare a Intesa Sanpaolo (che gestì finanziariamente il passaggio dalla vecchia Alitalia ipotizzando più percorsi alternativi) orizzonti più ampi fin da subito, magari riservando allo Stato una golden share che alla lunga si sarebbe comunque rivelata costosa e probabilmente ingestibile. Cambiare le carte in tavola adesso, impedendo ad Air France di esercitare il proprio diritto, si tradurrebbe fatalmente in un rovinoso boomerang contro l’Italia. Quale investitore estero scommetterebbe più un euro su un Paese incapace di mantenere i patti? Piuttosto, se davvero la politica intende tutelare i consumatori italiani e garantire che non vengano sacrificate le rotte del turismo nazionale - cosa che non sembra essere nell’interesse di Air France, che al contrario ha già dato garanzie sul rafforzamento dell’hub di Fiumicino oltre al mantenimento del brand Alitalia - si rimbocchi le maniche e si impegni ad operare affinché agli italiani venga assicurato un servizio di trasporto aereo all’altezza di un’economia che nonostante tutto figura ancora nella top ten mondiale.