MILANO Il conduttore di Radio Padania prova ad alleggerire l’aria: «Come fecero Richard Burton e Liz Taylor anche Berlusconi e Lega Nord convolano nuovamente a nozze». Matrimonio numero quattro, per la precisione. D’amore quello del 1994, d’interesse nel 2000, di routine del 2008. Questo appare, per ora, un matrimonio sofferto: «Habemus papam» dice l’esausto Cavaliere reduce dal conclave di Arcore finito alle ore piccole. «Abbiamo la garanzia che Berlusconi non sarà il premier» è il controcanto di Maroni, come a voler giustificare una marachella. A sentire i padani, i termini dell’accordo sono questi: il Pdl appoggia Maroni nella corsa per la Regione Lombardia (Formigoni andrà alla Camera), in cambio la Lega si aggrega alla coalizione berlusconiana. Poi c’è la parte di propaganda enfatizzata dai padani: «C’è l’impegno per far rimanere in Lombardia il 75% delle tasse dei lombardi». Un sogno. Maroni finge di crederci: «Vuol dire 20 miliardi l’anno in più per la nostra regione». Per Salvini i miliardi sono addirittura 40. Berlusconi, preoccupato per le reazioni del Sud, minimizza: «A conti fatti non cambia niente».
LE OMISSIONI DI CALDEROLI
Nella notte di Arcore il verbalizzante lo ha fatto Calderoli, il più aduso a stringere accordi col Cavaliere. E anche il più propenso a sorvolare sui dettagli per non creare fratture. Così la questione decisiva del candidato premier rimane in sospeso: «Però a Silvio abbiamo fatto mettere nero su bianco che non sarà lui» è il mantra di Maroni. Berlusconi conferma a modo suo: «Il premier verrà nominato a voto concluso. Io posso fare il ministro dell’Economia». E chi farà il capo del governo, allora? Ecco, questo è uno dei particolari omessi. Nella trattativa notturna Verdini e Alfano sono stati i più restii ad accettare i veti leghisti per Palazzo Chigi, alla fine è stato Berlusconi a chiudere: «Per me va bene così». Poi eccolo al mattino ai microfoni di una radio: «So per esperienza che il premier non conta niente, posso rinunciare». Di conseguenza aggiunge di vedere bene «Angelino Alfano nel ruolo». Maroni replica a distanza: «Vedo meglio Giulio Tremonti». Giulio premier e Silvio superministro economico: la stessa coppia in auge per dieci anni, a ruoli invertiti. Tremonti in serata però sostiene di vedere «meglio Berlusconi allo Sviluppo, l’Economia è troppo complicata».
I 49 SENATORI LOMBARDI
Davanti alla telecamere Maroni, commentando l’accordo, sorride: «Mi piace. Adesso sono sicuro che vincerò in Lombardia». A luci spente e microfoni lontani è più cauto: «A Silvio interessa prendere i 49 senatori della Lombardia per diventare decisivo a Palazzo Madama, sapevo che avrebbe ceduto». Certo, non c’è un foglio scritto o, come dice il segretario leghista, «non c’è un atto notarile a sancire il patto. C’è un rapporto di reciproca fiducia». Ed è proprio la reciproca fiducia che fa venire i brividi ai padani. Nella sede di via Bellerio c’è pure Umberto Bossi, barricato nella sua stanza. A sera si presenta al direttivo della segreteria regionale: «Bobo ha fatto bene a firmare, non poteva fare altro». Maroni però non può pubblicamente ammetterlo. Tenta di esaltarsi e di esaltare: «Con Veneto, Piemonte e Liguria faremo la macroregione del Nord. Era già un’idea del professor Miglio». Caratterizzò la campagna elettorale del 1994, a urne chiuse venne messa nel dimenticatoio.
Ma il «modello Catalogna»ha dissestato i conti pubblici
IL FOCUS
ROMA Ma che cosa vuol dire in soldoni lasciare il 75% delle tasse al Nord? In attesa di trovare un qualunque studente di scienze delle Finanze, compresi quelli di fede anti-centralista, che consideri minimamente realizzabile l’iperfederalismo maroniano, si può dare una prima risposta: lo Stato centrale smetterebbe di esistere. Smetterebbero di funzionare la Polizia, i Carabinieri, la Scuola unitaria. E non si capisce come potrebbe funzionare l’erogazione delle pensioni da parte dell’Inps.
Sicuramente salterebbe qualunque equilibrio dei conti pubblici. Nelle more della realizzazione dell’iperfederalismo scopiazzato dall’elenco delle «richieste impossibili» degli independentisti catalani, il deficit nazionale (o di ciò che ne resterebbe) esploderebbe. Si materializzerebbe il fantasma dell’uscita dell’Italia dall’euro e di una crisi economica di proporzioni bibliche con conseguenze certo non limitate all’Italia. Quale sia il vantaggio per il Nord di tutto questo psicodramma non è chiaro.
Chiarissime, invece, sono le cifre che sottostanno alle fantasie leghiste. Il gettito dell’Irpef, l’imposta sui redditi, ammonta a circa 150 miliardi. Oltre la metà di questo denaro, per l’esattezza 78,5 miliardi, arriva dal Nord. La musica si alza di volume se si parla di Iva, l’imposta sui consumi, il cui gettito ammonta a poco più di 100 miliardi e che per quasi due terzi (poiché gran parte delle imprese hanno domicilio fiscale al Nord anche se il consumo avviene al Sud) è versata nelle regioni settentrionali. Poiché grosso modo al Nord abitano il 40% degli italiani (la sola Lombardia ne ospita 10 milioni su circa 60) la Lega scopre l’acqua calda e fa leva per la sua propaganda politico-elettorale sulla differenza fra percentuale di popolazione e percentuale di gettito fiscale.
Ma è chiaro che bloccare nelle Regioni del Nord il 75% dell’Irpef e dell’Iva, ovvero ben 105 miliardi, significa far saltare qualunque contabilità nazionale. Con clamorosi autogol per il Nord: chi pagherebbe ad esempio le pensioni d’anzianità, cioè quelle ottenute in anticipo e quindi molto costose per il Tesoro italiano, che sono concentrate proprio nella Padania?
L’ennesima follia federalista, comunque, segnala l’ulteriore scollamento rispetto alla realtà dell’elaborazione leghista. Elaborazione che nel quadriennio dell’ultimo governo Berlusconi-Bossi ha sfornato prodotti federalisti assai deludenti rispetto alle aspettative. E’ bene ricordare che l’idea dell’Imu (ovvero Imposta Unica Municipale) è figlia delle leggi sul federalismo fiscale che sono state varate negli anni scorsi. Figlia del federalismo fiscale è anche l’aumento di 30 centesimi a metro quadro della Tares, la nuova imposta sui rifiuti che scatterà dal 2013. Si può discutere della modalità di applicazione delle due tasse a parte del governo Monti in una fase d’emergenza, ma resta il fatto che i lunghi anni passati a parlare di federalismo fiscale non hanno sciolto il nodo essenziale della spesa locale: le enormi differenze fra una Regione e l’altra nell’acquisto di analoghi beni o servizi. Che fine ha fatto l’idea del «costo standard»? La Lega al governo non ha cavato un ragno dal buco. E allora la sortita del 75% delle tasse al territorio, misura sconosciuta negli Stati federali veri, calza il parere di molti addetti ai lavori: l’ennesimo rilancio verbale destinato a coprire una realtà fallimentare.