Iscriviti OnLine
 

Pescara, 18/12/2025
Visitatore n. 750.332



Data: 20/04/2013
Testata giornalistica: Il Messaggero
Il giorno più lungo di Pier Luigi «Uno su quattro ha tradito»

Che disastro! Siamo in una situazione quasi surreale: non abbiamo un governo, non riusciamo a eleggere un presidente della Repubblica e di conseguenza non si gestisce né la formazione di un governo né un nuovo ricorso alle urne. È al momento una specie di deriva belga, il che davvero non può essere preso per una buona notizia. Questa è, banalmente, la riflessione che sorge spontanea a chi abbia osservato l’andamento della votazione di ieri pomeriggio. Le metafore che parlano di suicidio del Pd (e addirittura di suicidio assistito da Berlusconi) non sono lontane dal vero.
Vediamo di ricapitolare i risultati di questa giornata di impazzimento politico. Si apre con un Pd che acclama all’unanimità la candidatura di Romano Prodi (almeno così viene detto, ma in serata si dirà che a D’Alema quel metodo non andava bene), che su questa ha il sostegno di Sel, e si chiude con un risultato che vede ben 100 franchi tiratori nelle file di quella coalizione (ma sembra siano tutti del Pd). Si è bruciata senza senso una personalità notevole, ancora attiva sul piano internazionale (con un danno d’immagine al Paese che gli scriteriati artefici dell’operazione non riescono neppure a capire). Dove le responsabilità? Difficile assolvere Bersani, che ha gestito l’intera operazione nel peggiore dei modi.
Prima proponendo la via di un’intesa con il centrodestra che consegnava a Berlusconi la scelta del candidato, senza verificare se aveva la forza di tirarsi dietro il partito; poi ripiegando frettolosamente su una sponda identitaria, senza tenere conto che le fratture che gli avevano sfasciato la prima operazione avrebbero ripetuto l’impresa con la seconda.
Bersani ha fatto intendere che potrebbe trarre le conseguenze e dimettersi dalla segreteria: un’uscita ingloriosa, e che per di più, al momento sarebbe irresponsabile senza avere prima chiuso la partita del Colle. Le radici di quel che è successo vengono da lontano. In parte dal fallimento della fusione fredda di componenti da cui è nato il Pd, che si è portato dietro non solo fratture fra gli ex-Pci, gli ex-Dc e le varie forze che sono confluite nel nuovo soggetto politico, ma anche le confraternite nate nell’ultima fase del vecchio partito comunista e sempre in lotta per definire i lori pesi nel panorama complessivo. Accanto a questo sta la radicalizzazione che il Pd ha promosso nella sua base spingendo sull’antiberlusconismo e sull’inseguimento dei radicalismi di maniera: un po’ per tenere unito il proprio gregge col supporto dei media amici (o presunti tali), un po’ per il fascino duro a morire del vecchio slogan del «niente nemici a sinistra». Di conseguenza primarie che promuovono molti candidati radicaleggianti, restii poi a collaborare con le ragioni della normale politica parlamentare.
Di fatto però l’attuale debacle del Pd ha raggiunto l’obiettivo opposto: ha reso difficili i rapporti con Sel e non è riuscita a stabilirne con i grillini, se non al prezzo di mettersi al loro seguito votando il loro candidato di bandiera. Sull’altro versante il Pd non riesce ad esercitare una influenza sul pur modesto partito di Monti e quanto a Berlusconi lo agevola nel farsi liquidare senza colpo ferire (gli è bastato far uscire i suoi dall’aula per mostrare a tutti come erano ridotti il partito di Bersani e la leadership del segretario).
Il fatto è che ci si è cacciati in un pantano dal quale sarà difficilissimo uscire. È evidente che il Pd, pur essendo grazie al Porcellum il partito di maggioranza alla Camera, non ha capacità di leadership all’esterno, visto che non è compatto neppure al suo interno. Ha bruciato qualsiasi candidato suo di un qualche rilievo e dunque, se si vuole evitare una situazione di blocco, sarà costretto a mettersi al rimorchio di qualcun altro. Non sfugge, ovviamente, che questo significa che il Pd perde la legittimazione a reclamare un ruolo centrale nella costruzione del futuro governo (più che mai necessario), mentre, se si andrà presto ad elezioni anticipate, ci arriverà in preda a convulsioni che certo non gli apriranno la strada non diremo verso il successo, ma neppure verso la riconferma della sua forza attuale.
Certo adesso la priorità è trovare il “papa straniero” da proporre: se non suona impertinente, il Bergoglio della situazione, colui che con un bel po’ di carisma personale possa spiazzare i corvi all’interno e ridare immagine e credibilità alla politica italiana. Nel ragionare sulla scelta delle candidature, sarebbe bene che tutti si convincessero che la “rappresentanza dell’unità nazionale” che il Presidente deve realizzare è quanto farà dopo con il suo scrupoloso esercizio del ruolo assegnatogli, non un qualcosa che deriva automaticamente da un consenso ampio che può anche diventare una poco convincente ammucchiata. E che non basta un candidato che piaccia a tutti, occorre anche uno o una che sappia fare bene quel difficile mestiere.
La soluzione più forte sarebbe confermare Napolitano, anche se il Presidente non è disponibile e questo rende quasi impossibile percorrere questa strada a meno di non convincerlo che altrimenti il Paese si avvita in una crisi oscura. Altrimenti bisognerà votare ad oltranza finché, come altre volte è successo, un po’ per sfinimento, un po’ per rimorso ci si arrenda a trovare una degna soluzione. L’importante è che questa non porti con sé un piccolo Presidente: il Paese non lo merita e non può più aspettare.

Il leader uscente annuncia che se ne andrà «un minuto dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato», e questa volta somiglia più a papa Ratzinger con le sue dimissioni a tempo. Finanche il di solito mansueto Luigi Zanda, capogruppo dei senatori, perde le staffe non appena sente aria di contestazione, visto che il quasi ex segretario ha annunciato che il partito, da oggi, verrà guidato da lui stesso assieme ai due capigruppo. Si deve sospendere e troncare ogni discussione per evitare che si degeneri in rissa. Il Pd da oggi è retto da un segretario quasi ex, dai due capigruppo a capo di parlamentari ”felloni”, e da Enrico Letta, l’unico del vertice non dimessosi e quindi ancora vice segretario.
VENERDÌ NERO

Una giornataccia, questo venerdì nero 19 aprile, dedicato a S.Ermogene. A bocciatura fresca fresca di Prodi, esce dall’aula il bersaniano Davide Zoggia e fa: «In questo gruppo parlamentare ci sono tante teste di cavolo». Esce il franceschiniano Lapo Pistelli e fa: «In questo gruppo ci sono tantissime teste di cavolo». Identico il discorso, identico il j’accuse: «Ma come si fa? La mattina in assemblea tutti ad alzare la manina e a indicare Prodi all’unanimità, poi la sera in cento, ripeto cento, a votare contro». Esce ora il giovane turco Matteo Orfini e agita la scimitarra: «Questo è un gruppo dirigente che ha fatto il suo tempo. È ora di chiudere questa penosa vicenda, eleggiamo in fretta il capo dello Stato e poi apriamo una fase nuova, con un nuovo leader e un nuovo gruppo dirigente. Non è giusto scaricare sul Paese le nostre incapacità o fare un congresso mentre votiamo per il Colle».
Le dimissioni di Pierluigi Bersani erano nell’aria. E sono arrivate. Del resto lo stesso segretario, proprio in piena assemblea dei grandi elettori che ha portato in mattinata alla designazione di Romano Prodi, a un certo punto, parlando dell’operazione Marini già miseramente naufragata il giorno prima, ha preso atto pubblicamente della Caporetto e a un certo punto ha scandito «di tutto questo mi assumerò le mie responsabilità con le dovute conseguenze». Dimissioni ad horas, annunciate e poi ratificate. Ma con un dispositivo a doppio stadio. «Ci manca solo che il segretario si dimetta del tutto in una situazione del genere, no, non è cosa», spiegava e anticipava Nico Stumpo, che controlla la macchina del partito, sia pure col motore in panne.
Il cammino del cambio di leadership interno era stato più o meno tracciato: prevedeva l’elezione del nuovo capo dello Stato, subito dopo ci sarebbe stato il varo di un governo di scopo e tra le due operazioni la convocazione della direzione del Pd che convocava il congresso per l’autunno con un segretario che non si ricandidava più alla leadership. Ma il caos delle fumate nere per il Colle ha accelerato il cambio interno, resosi non più rinviabile. «Se dopo una sconfitta elettorale si sono dimessi nel passato segretari come Occhetto, D’Alema e Veltroni, può farlo anche Bersani», ringhiava l’altro giorno un parlamentare che bersaniano non è mai stato. A Pierluigi viene addossata anche la colpa di avere portato in Parlamento una serie di personaggi che non sanno neanche che cosa sia la disciplina di partito, «ma che dico, alcuni sembra non sappiano neanche che cosa vuol dire stare in un partito, rispondono solo a quelli che li hanno votati alle primarie, con quel tipo di primarie calate dall’alto e volute dal vertice, e se gli mandano un messaggino dal territorio vanno in tilt», si sfoga e punta il dito Andrea Orlando.

www.filtabruzzo.it ~ cgil@filtabruzzo.it