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Data: 21/04/2013
Testata giornalistica: Il Centro
Il semestre nero del segretario. Dal successo alle primarie (e nei sondaggi) alle dimissioni. E ora si scopre solo. Renzi in campo lancia l’Opa sul Pd «È ora di cambiare»

ROMA Il primo passo per riflettere sulla parabola di Pierluigi Bersani è sottrarsi allo sport nazionale (benché di importazione cinese - maoista) di bastonare il cane che affoga. La disinvoltura con cui il segretario del Pd (ex) viene in queste ore mollato da uomini e donne che ne hanno condiviso il percorso è pari solo alla faccia di bronzo con cui 200 grandi elettori di centro sinistra hanno al mattino salutato con un'ovazione la candidatura di Romano Prodi al Quirinale per poi colpirla e affondarla nelle urne di Montecitorio. Ecco, forse per Bersani la botta più violenta è stata, al di là degli sciagurati esiti politici della manovra e più ancora delle perdute prospettive come presidente del consiglio, la scoperta di aver governato per quattro anni un partito di bugiardi matricolati. In politica c'è poco posto per la comprensione e, come si è visto, anche per la lealtà, e bisogna però invece dire, che da questo punto di vista Pierluigi Bersani dal giorno dell'arrivo alla guida del partito nel settembre 2009 (reduce dalla batosta elettorale dell'aprile 2008) ha applicato una terapia di rianimazione del Pd a base di ingredienti decisamente controcorrente, come programmi di riforme realistiche e prudenti, mentre la stella berlusconiana negava la crisi e brillava di mirabolanti illusioni, il richiamo forte ai valori del lavoro, mentre la destra con il ministro Sacconi si occupava di demolirne il sistema di diritti, l'invocazione di una più decente equità nella distribuzione del reddito e dei carichi fiscali, mentre Tremonti e Berlusconi tra scudi e condoni difendevano i ricchi a petto in fuori. O come, infine, un'idea di politica fondata sulla partecipazione di molti e non sull'uomo solo al comando. «Sono l'unico a non aver messo il mio nome nel simbolo elettorale», ha spesso fatto notare, e non a torto. Avesse letto un po' più di Machiavelli e un po' meno don Milani, Pierluigi Bersani forse sarebbe ancora in sella e non avrebbe mollato così clamorosamente sull'ultimo miglio del suo percorso. Lo zenit della sua parabola è arrivato l'estate scorsa, quando i sondaggi segnalavano ormai un Pd in pieno slancio (e dire che il partito aveva toccato abissi inferiori al 20 per cento) e alti tassi di fiducia degli italiani. Poi è arrivato il fattore Renzi. Certo, è pur vero che le primarie del partito democratico vinte da Bersani contro il sindaco di Firenze sono state un bel momento di democrazia partecipativa e di mobilitazione, ma, a ben vedere, sono state anche il momento in cui per la prima volta in quattro anni e con una certa solennità, la leadership di Bersani è stata messa in discussione. Dopo le primarie, Bersani è arrivato al traguardo esausto e svuotato. Poco lucido, con un risultato elettorale frustrante e ingestibile. E, benché sia facile dirlo col senno di poi, ha cominciato a sbagliarne una dopo l'altra, diviso tra la spinta di rinnovamento dell'intransigenza grillina (o il colpo d'ingegno nella elezione di Laura Boldrini e Pietro Grasso alla presidenza delle Camere) e gli appelli che lo stesso Napolitano gli rivolgeva in nome di una rinnovata e moderata unità nazionale con il Pdl. In questo momento era il suo partito a doverlo aiutare, a dover decidere con lui la direzione da prendere. Lo stesso partito che non ha esitato a tradirlo con raro cinismo. Ieri Bersani si è voltato d'improvviso e ha scoperto di essere rimasto irrimediabilmente solo.

Renzi in campo lancia l’Opa sul Pd «È ora di cambiare»

Ipotesi reggenza a Enrico Letta, segnali di scissione Strappo di Barca: «Meglio votare per Rodotà o la Bonino»

ROMA Nel Pd parte la resa dei conti e per la prima volta lo spettro della scissione aleggia davvero tra i democrat. Matteo Renzi prova a scalare la segreteria, grazie a un patto generazionale con tutte le nuove leve del Pd . A 24 ore dalla dimissioni di Pier Luigi Bersani e di Rosy Bindi l’elezione di Giorgio Napolitano non basta a ricucire lo psicodramma andato in onda in diretta tv questi giorni, quando il Pd ha celebrato all’interno di Montecitorio il suo congresso virtuale, bruciando due padri nobili come Franco Marini e Romano Prodi per le faide interne scoppiate subito dopo la mancata vittoria elettorale del 25 marzo. La prossima settimana sarà convocata la direzione del partito per eleggere un «reggente» che traghetterà il partito fino al congresso che sarà anticipato. «Si è dimessa l’intera segreteria e andremo a un congresso anticipato» conferma Enrico Letta che probabilmente, in quanto vice segretario, dovrà traghettare il partito fino al congresso come fece Franceschini, dopo le dimissioni di Veltroni, sempre che Letta se non sia chiamato a far parte del nuovo governo come vicepremier. Ma la ferita che si è aperta in questi giorni forse porterà il Pd a separarsi in due tronconi, con l’ala sinistra del Pd che già scalda motori e guarda, con Fabrizio Barca, con interesse a Vendola e all’assemblea della sinistra convocata per l’8 maggio a Roma. Matteo Renzi è pronto a candidarsi alla guida del partito, seguendo il consiglio che gli aveva dato Walter Veltroni. «Le vicende di questi giorni fanno pensare che o la politica cambia o salta in aria, adesso è il momento di provare a fare finalmente cose finora solo elencate e annunciate» avverte Renzi chiedendo al partito di smettere di rincorrere Beppe Grillo. Quanto alla sua corsa alla leadership democrat il sindaco non si sbilancia. «C’è tempo, al centro di tutto ci devono essere gli italiani, non mi interessa quando il Pd andrà a congresso ma che il Pd sia in sintonia con gli italiani», dice. L’alleanza con la quale Pd e Sel si sono presentati alle elezioni, Italia bene comune, è finita ieri con la riconferma di Giorgio Napolitano al Quirinale. Nichi Vendola ha infatti votato Stefano Rodotà come lo stesso Fabrizio Barca aveva invitato a fare con un twitter. «Incomprensibile no a Rodotà o a Bonino» scrive Barca. «Barca e soprattutto Vendola dovrebbero sapere che non c’erano reali possibilità di eleggere Rodotà, è un modo per sfruttare una situazione di crisi per guadagnare qualche punto», attacca Matteo Orfini. Seguito da un altro esponente della sinistra interna, Stefano Fassina che bolla come demagogica la posizione di entrambi. Vendola però nega di star lavorando alla scissione del Pd ma intanto, «dopo lo schianto del partito» lancia un cantiere della sinistra dialogante con i grillini e prova ad arruolare Ingroia. La tensione resta altissima. Pier Luigi Bersani ieri è addirittura scoppiato in lacrime. Ai giornalisti che gli chiedono cosa farà ora che ha dato le dimissioni risponde che non andrà all’estero. Ma Bersani è ormai isolato. Persino la cerchia dei suoi fedelissimi gli ha voltato le spalle. E’ il futuro è ancora tutto da scrivere. I veleni sono ancora da dissolvere. «I franchi tiratori andrebbero colpiti con i bastoni, ma non si capisce perchè uno scontro debba diventare una scissione: sarebbe un delitto», avverte Franceschini. Il gruppo dirigente tornerà presto a divedersi se è vero che Napolitano ha condizionato il suo sì alla rielezione alla nascita di un governo del Presidente, sostenuto da Pd, Pdl, Lega e Scelta civica. Una possibilità che metà del Pd, a partire dai giovani turchi, boccia senza appello.

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