L’AQUILA «Il mio rapporto con Giulio Andreotti iniziò nel 1976». Quasi quarant’anni fa, la storia che si ripete. Zaccagnini e Moro aprono alla trattativa con Berlinguer per il governo della non sfiducia e in quel momento dentro il Msi si consuma lo strappo con l’ala moderata del partito: Raffaele Delfino con Pietro Cetrullo e Ernesto De Marzio piloterà la nascita del nuovo gruppo parlamentare di Democrazia nazionale col preciso intento di appoggiare il governo monocolore. «Ci accusarono di voler favorire Andreotti, in realtà volevamo soltanto ostacolare il compromesso storico». E’ un giorno di dolore per Delfino: la notizia della morte del senatore a vita gli arriva dal televisore. Un uomo unico, racconta l’ex presidente di vigilanza della Rai ora 82enne, intelligentissimo e dalla battuta tagliente.
«Lo strappo con Almirante fu doloroso, lui era per il no al governo monocolore, mentre noi volevamo l’astensione, che avrebbe neutralizzato il ruolo del Pci ed evitato l’accelerazione del processo di convergenza tra Dc e Pci». Erano tempi difficilissimi, racconta Delfino. In ballo c’era anche il rapporto con gli Stati Uniti, il tentativo di accreditare con Nixon e il partito repubblicano americano un partito di destra moderata: «Eravamo in piena guerra fredda e gli States non vedevano di buon occhio un governo appoggiato dai comunisti. In quell’occasione io personalmente sono stato varie volte da Nixon». Le cose però cambiano in fretta. «Il giorno del rapimento Moro, il 16 marzo alle 20.30 il governo Andreotti ottiene la fiducia da democristiani, Pci, Psi, Demonazionali e sinistra indipendente. Poi però quando si trattò di votare il sistema monetario europeo, comunisti e socialisti si defilarono e noi invece votammo a favore». Ed è allora che il rapporto tra Delfino e Andreotti diventa ancora più stretto. Il governo però durerà solo un anno, Democrazia nazionale soltanto due in più.
Ed è sempre Delfino che qualche anno dopo apre le porte dell’Abruzzo ad Andreotti, consegnandogli una corrente di scontenti ex nataliani con un portafoglio ricchissimo di voti: «Nevio Piscione e altri consiglieri, tra cui Di Carmine, Prosperi, Borriello, delusi perchè a dispetto della loro netta affermazione alle elezioni del 1985 non riuscirono ad ottenere la poltrona di primo cittadino, a causa del niet di Gaspari, erano usciti provocatoriamente dalla Dc. Io a quel punto presi Piscione e lo portai a Roma da Andreotti. Il passaggio di quel gruppo nella corrente andreottiana fu suggellato a Pescara da una manifestazione memorabile che si tenne al Circus con la presenza di Andreotti, che all’epoca era ministro degli Esteri. E Piscione col suo imprimatur poco dopo divenne sindaco». Da parecchi anni Delfino e Andreotti non avevano più rapporti: «La nostra amicizia si era incrinata a causa dell’interpretazione che lui diede della scissione dal Msi. Ma il mio legame con lui è sempre rimasto fortissimo, e domani andrò al suo funerale. Stavo proprio andando a fare benzina...».
Andreotti e l’Abruzzo, storia di un lungo legame
L’AQUILA La prima volta nel 1978, l’ultima nel 2007. A Pescara ci venne a settembre, dopo il delitto Moro, per parlare alla seconda edizione della festa dell’amicizia. Ci tornò nel 1985 per battezzare la sua corrente e Nevio Piscione, il futuro sindaco dell’epopea andreottiana, come la chiamano i nostalgici. E alla fine per ritirare il premio che gli volle consegnare il sindaco dell’epoca, Luciano D’Alfonso. Insieme ad Andreotti, il cardinal Fagiolo. «A salutarli in quella occasione venne anche monsignor Iannucci -racconta Domenico Di Carmine, giornalista Rai e negli anni Ottanta consigliere comunale della corrente andreottiana- Nessuno lo sapeva ma erano tutti e tre coetanei e avevano studiato insieme a Roma».
Di Carmine di quegli anni ricorda le levatacce per poter essere ricevuti a Roma da Andreotti che era super mattiniero. «Noi della corrente partivamo alle tre di notte da Pescara. Di lui ricordo le battute, la cena al Sea River dopo la manifestazione al Circus, con il fido Evangelisti che mi chiedeva di fare le imitazioni di Fanfani, che lui odiava: «A Di Ca’, facce sentì Fanfani». E che finì inevitabilmente con l’imitazione dello stesso Andreotti, con lui che ghignava compiaciuto. Ci sono ancora le foto di quella serata».
A Licio Di Biase il senatore a vita ha firmato la prefazione al suo libro su Spataro e glielo ha presentato due volte a Roma. «La prima fu una presentazione tiepida; la seconda, che fu organizzata da Tonino Tancredi, il padre di Paolo di cui era grande amico, si lasciò andare. Quel giorno disse: ”Se non avessi conosciuto Spataro non sarei diventato Andreotti, ma forse sarei diventato Papa”. Il libro se lo portò via come una reliquia, Spataro rappresenta la mia vita, mi confidò. Fu Spataro infatti a fargli conoscere De Gasperi, che all’epoca faceva il bibliotecario al Vaticano, oltre a essere presidente della Fuci. Ce lo portò perchè Andreotti doveva preparare la tesi, un incontro che gli cambiò la vita. In quell’occasione Tancredi organizzò un buffet con prodotti tipici abruzzesi e noi ci sedemmo intorno a un tavolo: fu un incontro memorabile».