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Data: 11/05/2013
Testata giornalistica: Il Tempo d'Abruzzo
Nessuna prova contro D’Alfonso. I motivi dell’assoluzione

Nonostante ricoprisse un'indiscutibile posizione «verticistica e preminente» all'interno dell'amministrazione, essendo sindaco, non vi sono «elementi specifici e concreti» per ritenere che Luciano D'Alfonso fosse a capo di un'associazione a delinquere, così come gli altri amministratori e gli imprenditori coinvolti. Suiona lapidaria la sintesi delle centosettantatré pagine delle motivazioni che hanno portato all'assoluzione con formula piena di D'Alfonso e degli altri 22 imputati del processo Housework, tra cui il suo ex braccio destro Guido Dezio. A due giorni dal deposito delle motivazioni che hanno spinto il gup Gianluca Sarandrea a non rinviare a giudizio l'ex sindaco in merito all'inchiesta sull'urbanistica, arrivano anche quelle sul maxiprocesso che, cinque anni fa, sconvolse l'assetto politico della città di Pescara con l’arresto dell’allora primo cittadino.

La famosa «lista Dezio», secondo il collegio giudicante, riportava sì dei finanziamenti avuti in nero da diversi imprenditori, ma questi, si legge nel dispositivo, «erano a beneficio del partito La Margherita e non del sindaco. Affermare che nel 2006 da finanziatori di partito siano diventati corruttori e concussi al soldo di D'Alfonso – prosegue il dispositivo - è francamente un salto logico ingiustificato e ingiustificabile». Tra i tanti reati contestati all'ex sindaco c'era anche quello relativo alla presunta corruzione e la turbativa d'asta messa in atto insieme ad altri amministratori e agli imprenditori Carlo e Alfonso Toto perché questi si aggiudicassero l'appalto dell'area di risulta. Nessun favore fu però fatto ai due visto che, prosegue la sentenza, «i parametri di gara erano conosciuti da tutti». Nessun atto corruttivo c'è stato poi con Rosario Cardinale che ha costruito la sua casa di Lettomanoppello, e nessuna truffa nella vicenda del calice di Toyo Ito mentre, per la questione bar del tribunale, è stata completamente accolta la tesi di Dezio per cui i 20 mila euro chiesti ai fratelli Di Pentima, rappresentavano una «fideiussione a garanzia dei debiti pregressi accumulati dai due». Secondo la sentenza di primo grado, Luciano D'Alfonso non aveva creato quindi alcuna «squadra d'azione» fatta di amministratori che, pur di avvantaggiarlo, avrebbero scelto la strada dell'illegalità senza averne alcun ritorno personale.

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