PESCARA «Che Luciano D’Alfonso abbia vissuto con il denaro della zia, come sostenuto dalla difesa e dall’imputato, è un argomento così ridicolo da non meritare alcun commento». Firma un appello senza remore il pm Gennaro Varone, scrive il nuovo atto d’accusa contro D’Alfonso chiamando in causa, stavolta, anche il tribunale che l’ha assolto tacciato, come scrive, di «incapacità a un esame complesso della vicenda», reputato privo di «una mente allenata», di «talento nel comprendere la verità al di là dell’eclatanza» e autore di motivazioni «scarne, minimali» che hanno ignorato «decisivi elementi accusatori». Se il presidente del collegio Antonella Di Carlo e i giudici a latere Nicola Colantonio e Paolo Di Geronimo avevano stabilito nelle motivazioni della sentenza che quello a D’Alfonso era stato «un processo senza prove», il pm replica che «il compito del giudice è interpretare e capire le prove» ribaltando quelle motivazioni con altrettante 300 pagine in cui nota «una particolare benevolenza culturale verso la classe dirigente» e torna a chiedere di condannare l’ex sindaco di Pescara, il suo ex braccio destro Guido Dezio, gli imprenditori Carlo e Alfonso Toto e altre 15 persone. Sei posizioni, quelle di Giampiero Finizio, Marco Molisani, Marco Presutti, Vincenzo Fanì, Enzo Perilli e Luciano Di Biase, non sono state appellate. «Il processo gronda di dazioni di denaro». Nell’appello risfilano i grandi temi che per due anni hanno tenuto banco nel dibattimento: dal rapporto tra D’Alfonso e gli imprenditori alla lista Dezio, dai conti dell’ex sindaco ai viaggi offerti dagli imprenditori-amici Toto agli appalti tra cui l’area di risulta. Perché il pm ha deciso di fare appello? Lo spiega Varone quando scrive: «Tutto il processo gronda di richieste e dazioni di denaro, di torbidità delle condotte amministrative e soprattutto di deliberata opacità di quelle personali spiegabili soltanto con la necessità di occultare illeciti». Rispolvera i termini della requisitoria, Varone, quando disse che la «gestione di D’Alfonso era stata «torbida» e quando diede dello «svergognato» all’ex sindaco per essersi nascosto dietro una famiglia chioccia. «Non è ordinario», scrive nell’appello, «che un sindaco si rechi in banca a versare mazzette di banconote per migliaia e migliaia di euro, che un sindaco esegua acquisti in contanti per svariate decine di migliaia di euro senza alcun prelievo proprio o dei propri familiari, che un sindaco asserisca, senza battere ciglio, che vacanze costose gli siano state interamente pagate da un facoltoso imprenditore, Carlo Toto, che si appresta a partecipare e vincere uno dei più importanti appalti della città». «Anche il più ingenuo capirebbe che sono entrate illecite». Se il tribunale ha messo una pietra sui conti fermi di D’Alfonso assolvendolo anche perché, come scrisse, «un dato è certo: D’Alfonso ha contato sul sostegno dei familiari», il pm rilancia riportando la consulenza sugli accertamenti patrimoniali di Camillo De Stefanis e concludendo: «Le esigenze familiari e personali quotidiane di D’Alfonso e dei suoi genitori, delle quali ognuno di noi può rendersi conto a fine mese, sono coperte con altri proventi. Chi scrive», aggiunge il pm, «crede che anche il più ingenuo dei lettori capirebbe che siamo di fronte a entrate illecite». «La cassaforte dei Toto». Durante il processo, l’ex sindaco di Pescara si è speso parecchio per illustrare la sua amicizia con i Toto, quel legame datato e sincero che nel corso degli anni ha spinto gli imprenditori a regalare all’ex sindaco vari viaggi. La difesa è stata accolta dal tribunale che ha scagionato i tre dall’accusa di corruzione ma non da Varone. «E’ inconsistente l’argomento secondo cui l’impresa», dice il pm, «che regala lo ha fatto – o potrebbe averlo fatto – per mera amicizia, o per riconoscenza, o per non si sa che. Come se questa ipotesi (data la qualità delle regalie) abbia mai avuto genuina corrispondenza in una qualunque nostra concreta esperienza ostensibile o anche semplicemente personale. Chiunque può constatare, ogni giorno e senza eccezioni, il contrario: chi dà, quando attende, lo fa per comprare o sdebitarsi». Allontana poi un processo alla morale, il pm, quando scrive: «Se le “condotte private” consistono nell’accettazione di denaro e smodate elargizioni elencate in un’accusa di corruzione ebbene, quelle condotte devono, invece, essere esaminate. Se, poi, il giudice intendeva dire che non vuole esprimere un giudizio morale su D’Alfonso, si replica che il pm ha chiesto formalmente un giudizio di rilevanza penale». E aggiunge: «Si può dire che i Toto erano a completa disposizione di D’Alfonso per ogni sua esigenza economica. D’Alfonso disponeva della cassaforte di Toto» per legare, poi, questo elemento al lungo capitolo dedicato al presunto scambio corruttivo per l’accusa: viaggi in cambio dell’area di risulta ricordando «l’interesse di Toto per l’appalto» e le email sequestrate. «La villa di Letto? Basta guardarla». Non ci sono state tangenti, ha deciso il tribunale, dietro la costruzione della villa di D’Alfonso a Lettomanoppello, quella che invece per l’accusa sarebbe stata comprata a prezzi stracciati dall’imprenditore Rosario Cardinale (assolto anche lui). «Il tribunale non ha colto l’eccezionale qualità delle prove documentali» scrive il pm e, prima di addentrarsi nella disamina dei costi, aggiunge che «è sufficiente guardare la villa per capire che non poteva costare 290 mila».