«Ragionando in questo modo (senza che la mente colga inferenza reciproca tra gli elementi di prova acquisiti), una dimostrazione di responsabilità penale sarà possibile soltanto nel caso di solare evidenza della prova. Tuttavia, non è questa la funzione del processo penale: né questo l’alto magistero del giudice, cui spetta il compito di un esame molto più complesso ed articolato delle vicende di cui si occupa; purché la sua professionalità consista (come deve e come chi scrive ritiene) nel talento a comprendere (in forza in un ragionamento logico/scientifico) la verità al di là dell’eclatanza».
È soltanto uno dei tanti passaggi contenuti nel ricorso in appello stilato dal Pm Gennaro Varone contro la sentenza di assoluzione di tutti gli imputati del processo all’ex sindaco Luciano D’Alfonso. Il magistrato attacca duramente il collegio e il presidente Antonella Di Carlo che con 314 pagine ha blindato l’assoluzione degli imputati negando tutto il teorema costruito da Varone, anzi bollandolo proprio come un teorema. E, in risposta, il Pm dedica addirittura le prime dieci pagine delle 300 del ricorso per criticare aspramente la sentenza. «Colpisce, della motivazione, la sua qualità singolarmente scarna», scrive il Pm riferendosi al fatto che la sentenza è strettamente legata alle risultanze processuali che secondo il collegio non hanno provato nulla a carico degli imputati e di D’Alfonso in particolare. «Risulta così una disposizione di particolare benevolenza culturale verso la classe dirigente, a cui beneficio si sono avallate condotte le quali, se tenute da qualunque altro pubblico ufficiale di ruolo esecutivo, sarebbero state certamente punite come corruzione, ciò con la labile motivazione che in quel ruolo apicale non si compiono atti amministrativi diretti perché un sindaco non si occupa degli appalti e degli incarichi». E questo è il tenore delle considerazioni del magistrato nei confronti della sentenza.
LE ENTRATE DI D'ALFONSO
Dopo aver analizzato tutte le voci e tutte le spese sostenute dall’ex sindaco Varone scrive: «Insomma, Luciano D’Alfonso, genitori e fratello versano a getto continuo denaro sui propri rapporti bancari dimostrando una disponibilità di denaro enormemente superiore a quella consentita dalle fonti di reddito apparenti; e non prelevano che per spese straordinarie. Le esigenze familiari e personali quotidiane, delle quali ognuno di noi può rendersi conto a fine mese, sono coperte con altri proventi. Anche il più ingenuo dei lettori capirebbe essersi di fronte ad entrate illecite». «Quanto alla spiegazione che l’imputato avrebbe vissuto con denaro della zia, si tratta di un argomento talmente ridicolo da non meritare alcun commento», aggiunge il Pm.
RAPPORTI CON TOTO
«D'Alfonso era sul libro paga della Toto e non si può credere - scrive il Pm - che ciò non fosse per il suo ruolo politico e per come ha quel ruolo esercitato, per i risultati che gli sono imputabili in qualità di sindaco e per gli atti amministrativi compiuti. Soprattutto non si può credere che il progetto dell’area di risulta (cui il sindaco teneva enormemente) non sia stato oggetto di consultazioni con l’imprenditore finanziatore». E ancora: «D’Alfonso dava talmente tanto per scontato di poter contare sulla cassaforte dei Toto, da invitarlo a pagare biglietti aerei per propri amici persino attraverso la sua segretaria... Toto non ha - nel periodo che ci riguarda o in quello datato - retribuito un amico, ma un presidente di Provincia ed un sindaco, inondandolo di elargizioni, anzi, mettendosi a sua completa disposizione patrimoniale».
LISTA DEZIO
«Secondo il tribunale non vi sarebbe prova del fatto che quel denaro sia stato corrisposto perché ne beneficiasse il sindaco D’Alfonso. La circostanza che proprio nel mese di aprile 2006 non vi siano uscite dai conti personali di D’Alfonso e dei suoi familiari, non sarebbe probante. Appare paradossale che il tribunale, anziché concludere che D’Alfonso ha ricevuto denaro occulto anche negli anni passati, affermi che... non ne ha mai ricevuto!.. Il senso della tesi accusatoria è ormai chiaro - conclude il Pm -: in questa vicenda i reati appaiono commessi per il ruolo che si occupava nell’organigramma dell’amministrazione D’Alfonso e per il modo in cui l’esercizio di quel ruolo poteva contribuire alla causa personale e patrimoniale dell’allora sindaco. È l’esistenza di questa matrice (che impegnava chiunque venisse a far parte della squadra) che indica l’esistenza di un patto stabile, tale da fondare il reato associativo».