ROMA Sono anni che se ne parla, ora forse è arrivato il momento. Il governo sta lavorando alla riforma dei centri per l’impiego. Sarà uno dei pilastri del piano allo studio per creare occupazione. Giovanile, ma non solo. Le condizioni per intervenire stavolta sembra ci siano tutte. La disoccupazione è a livelli altissimi, come mai era capitato. E l’esperienza degli altri Paesi dimostra che se le politiche attive funzionano, tutto fila più liscio. Nonostante la crisi. Inoltre l’abolizione delle Province - che gestiscono i centri per l’impiego - è un processo al quale si sono rassegnati tutti, anche i più recalcitranti. Infine il discorso dei soldi. Ne abbiamo pochi, le uniche risorse davvero certe sono quelle dei programma europeo denominato Youth Guarantee, collegato a filo doppio con le politiche attive nel mondo del lavoro: per quanto si tratti di una cifra certamente non risolutiva (all’Italia dovrebbero andare 400 milioni di euro spalmati in sette anni) non possiamo permetterci di perderla.
E allora ecco che proprio la riforma dei centri per l’impiego è uno dei pochi capitoli ”chiari” nella mente del governo. La gestione passerà alle Regioni. I centri saranno potenziati per risorse e organico. Obiettivo: fare in modo che tra un contratto e un altro non passino più di 4 mesi di inattività.
IL NODO RISORSE
L’Italia spende annualmente per i 553 centri per l’impiego sparsi sul territorio mezzo miliardo di euro. Diciamo la verità: 500 milioni di euro per riqualificare e trovare lavoro a tre milioni e 270.000 disoccupati, più due milioni dei cosiddetti Neet (quelli che non cercano, non studiano e non si formano) è un po’ pochino. Appena 150 euro a persona (se si contano solo i disoccupati). E in questi 150 euro devono rientrarci anche i costi di struttura, sedi e personale addetto. Hai voglia a dire che non funzionano! Che - come qualche mese fa ha rivelato un’indagine Isfol - solo il 3,4% dei nuovi occupati (2,6% tra i giovani) è stato veicolato dai centri per l’impiego. Salvo eccezioni, le cosiddette best practices: proprio ieri il ministro del Lavoro Enrico Giovannini ha incontrato una delegazione delle Province per avviare una ricognizione delle buone pratiche. E già, perché in alcune regioni (Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Basilicata) quel 3,4% diventa 20%. Un bel salto.
PIÙ MERITO MENO AMICI
Il canale più efficace in Italia resta quello degli amici e delle conoscenze: il 31% degli occupati ha trovato lavoro così. Il 18% con concorsi pubblici, il 17% inviando curricula a raffica. E poi c’è chi si butta nel lavoro autonomo, chi si rivolge ai sindacati, oppure a quei pochi casi di reale collegamento tra università, scuole tecniche e industrie. Far diventare i centri più efficienti significa anche privilegiare i più meritevoli.
Servono più soldi, però. D’altronde Germania, Francia e Inghilterra investono per lo stesso motivo dieci volte più di noi. E lì il collocamento pubblico funziona. Di contro spendono molto meno che da noi per gli ammortizzatori sociali. Arrivare a cinque miliardi come i nostri competitors, sarà difficile, ma qualcosa si può trovare. Dove? Dallo Youth Guarantee, cercando di convincere la Ue ad anticipare al 2013 il piano e magari ad ”alimentarlo”. Ma anche dai minori costi derivanti dalla stretta sui requisiti per la cig in deroga. Può contribuire a liberare risorse poi l’applicazione di un principio già esistente ma finora per lo più disatteso: chi rifiuta il posto di lavoro offerto ed è beneficiario di un sussidio, lo perde.
MOBILITÀ INTERNA
Attualmente nei centri per l’impiego lavorano 6.600 persone. L’idea è di portarli a diecimila. Senza però fare nuove assunzioni. Sarà utilizzato il meccanismo della mobilità nella pubblica amministrazione. Allo studio anche una maggiore collaborazione con le agenzie di collocamento privato.