Le sentenze si rispettano, ma si possono commentare e criticare, come in ogni nazione libera. Negarlo è ipocrita. Come lo sarebbe negare che una condanna rigidissima, addirittura superiore alle pur severe richieste dell'accusa, possa evitare conseguenze politiche se ad essere considerato il vertice di una ramificata banda dedita a reati moralmente spregevoli è il capo di uno schieramento che compartecipa in modo determinante al governo del Paese. I risvolti giuridici sono discussi nelle aule del tribunale. Ma i media internazionali non si sarebbero mobilitati così massicciamente se si fosse concluso in primo grado un processo come un altro. E se non fossero stati convinti che la sentenza di ieri avrebbe ipotecato il futuro politico di questo Paese.
Dopo la sentenza di ieri, durissima, che si abbatte come uno schianto su Silvio Berlusconi e sul suo partito, il futuro politico del Paese non è tra i più leggiadri. E la spaccatura che da vent'anni spezza in due l'opinione pubblica italiana è ancora più profonda e irriducibile. Da ieri si sentiranno più forti quelli che, su un fronte, considerano il nemico Berlusconi come una figura losca da gettare nel precipizio della vergogna e della non rispettabilità e, sull'altro, quelli che difendono in trincea Berlusconi come vittima di un accanimento politico-giudiziario senza precedenti, molto prossimo alla persecuzione.
Da ieri saranno più baldanzosi i demolitori professionali della «retorica della pacificazione», i nostalgici di un ventennio in cui lo scontro tra politica e magistratura è stato rovente e senza mediazioni, i cantori di una «guerra civile fredda» o «a bassa intensità» che hanno trovato nella demonizzazione o nella santificazione di Berlusconi l'unico parametro dei loro giudizi politici. Da ieri è più debole il governo presieduto da Enrico Letta, anche se non saranno risparmiati gli appelli a tenerlo fuori dalla contesa, a separarne il destino da quello (dicono, anche qui non senza ipocrisia, «personale») di Berlusconi. Dopo la richiesta di condanna di Ilda Boccassini, una manifestazione a Brescia del Pdl fece sfiorare la rottura tra Alfano e Letta nel pulmino che li portava nel «ritiro spirituale» dell'abbazia di Sarteano.
Dopo la sentenza a sette anni di Berlusconi (solo un anno meno di Misseri ad Avetrana e uno più di Scattone e Ferraro condannati come gli assassini di Marta Russo, si twitta sui social network), come si può immaginare che le tensioni tra il Pdl e il Pd non siano destinate ad incattivirsi? Occorrerà molto spirito ascetico per non farsi trascinare nel gorgo di una polemica che rischia di diventare autodistruttiva nell'ambito di una strana e mal sopportata coabitazione di maggioranza. A rigor di forma, una sentenza di primo grado non si carica di conseguenze pratiche per chi è condannato.
Ma una sentenza così aspra, da rispettare certo e da non liquidare sbrigativamente come una «sentenza politica», mette in discussione la stessa legittimità morale del capo di un partito. Viene quasi rimproverata l'accusa di aver indicato un reato meno grave di quello sulla base del quale Berlusconi è stato condannato. E si intima perentoriamente di riconsiderare la posizione di tutti quelli che hanno testimoniato senza indicare in Berlusconi il «male assoluto», come a individuare una rete di complicità omertosa che esclude il carattere esclusivamente «personale» dello stesso Berlusconi, additato invece come il capo di una banda dedita alla prostituzione guidata dal presidente del Consiglio dell'epoca. Ci vuole autocontrollo e senso di responsabilità per non trascinare il governo nella spirale della divisione. Da ieri tutto sarà più difficile.
PIERLUIGI BATTISTA