l’abbraccio tra i pm Passa la linea dei magistrati Mazzocca condannato a due anni: «La mia colpa è stata tagliare i budget»
PESCARA E’ un bagno di sangue la sentenza del processo sanità che lascia impietriti gli imputati arrivati in aula ad affrontare la sorte di una condanna severissima, quella che l’avvocato Gian Domenico Caiazza traduce in una telefonata straziante all’ex presidente della Regione Ottaviano Del Turco arrestato all’alba del 14 luglio 2008: «Mi dispiace, nove anni e sei mesi». Del Turco non c’è in aula al momento del verdetto, quando i pm Giampiero Di Florio e Giuseppe Bellelli allentano la tensione accumulata, con Di Florio che si commuove e i due che si abbracciano sfiniti dagli anni di lavoro e dalle critiche a quel processo ritenuto «senza soldi», a quell’Angelini reputato «inattendibile» mentre loro, nella requisitoria, si erano sgolati a dire: «E’ pieno di soldi», «la parola di Angelini è riscontrata». La procura si commuove, gli imputati fuggono. E’ stato il giorno della procura, quello di ieri, dell’accusa entrata e accolta nella sentenza del presidente del collegio Carmelo De Santis e dai giudici a latere Massimo De Cesare e Gianluca Falco e quello della sconfitta – in primo grado – di parte dell’ex amministrazione di centrosinistra e di tanti imputati fuggiti via dopo la lettura della sentenza. Il procuratore capo Federico De Siervo è stato accanto ai due pm durante la lettura del dispositivo ma tra il pubblico c’era un pensionato d’eccellenza, l’anima dell’inchiesta sanità, l’ex procuratore capo Nicola Trifuoggi che, cinque anni dopo, ripete: «La montagna di prove schiaccianti? Il tribunale è stato del mio stesso parere». Il giorno della procura, la fuga degli imputati. Se Del Turco se ne resta appartato a Collelongo accanto alla sua compagna, il suo antagonista Vincenzo Angelini è in aula e, nascosto tra una folla di avvocati, di telecamere e di giornalisti arrivati da tutta Italia, se ne va smanacciando per i tre anni e sei mesi che il collegio gli ha riservato perché «cribbio, non ho capito niente di questa sentenza», dice Angelini, apripista di una fuga collettiva dalla maxi-aula 1: quella dell’onorevole Sabatino Aracu, condannato a quattro anni – «basta, basta, non accetto neanche la pena di un’ora» – dell’ex manager della Asl di Chieti Luigi Conga condannato a nove anni, dell’ex assessore regionale alla sanità Bernardo Mazzocca condannato a due anni – «la mia colpa è stata quella di tagliare i budget», – dell’ex segretario di presidenza della giunta Lamberto Quarta condannato a sei anni e sei mesi fino agli assenti: l’ex consigliere regionale Camillo Cesarone che prende nove anni di reclusione. Condannate le figure chiave. Una carneficina perché il collegio giudicante è vero che ha assolto 11 persone, figure meno gravate dai reati tra cui l’ex assessore alla sanità regionale di centrodestra Vito Domenici, il responsabile della segreteria dell’ex assessore alla Sanità Angelo Bucciarelli, il commercialista di Chieti Giacomo Obletter e l’ex legale rappresentante della Humangest Gianluca Zelli, ma ha condannato le dieci figure chiave del processo sanità (più la società Villa Pini) accogliendo – non proprio in toto – le richieste già altissime della procura: per Del Turco, l’ex ministro delle Finanze ed ex sindacalista, i pm avevano chiesto 12 anni per le presunte tangenti e il collegio li ha abbassati a 9 anni e sei mesi, mentre per Angelini i tre anni della procura sono aumentati con sei mesi in più. Aracu? L’onorevole è stato tra i primi a sbottare «è un’ingiustizia e basta, non accetto neanche una pena di un’ora. Viva Berlusconi!» anche se il tribunale – in mezzo a condanne severe – gli ha riconosciuto 4 anni al posto dei 9 chiesti dai pm. 10 milioni alla Regione, “spiccioli” ad Angelini. Il collegio giudicante è entrato in camera di consiglio alle 9.30 annunciando una sentenza «non prima di mezzogiorno» ma lasciando gli imputati e gli avvocati a vagare nell’aula mai così piena fino alle 13.55. E’ a quell’ora che De Santis ha letto per 18 minuti le 7 pagine del dispositivo falcidiando alcuni reati, tra cui l’associazione per delinquere targata centrodestra i cui partecipanti sono stati assolti «perché il fatto non sussiste», riqualificando in corruzione tutti i reati di concussione – ad esempio le 15 contestate a Del Turco – e passando, poi, alla lettura del risarcimento. Ad Angelini, che nel processo figurava nella veste di imputato condannato, ieri, solo per il reato di corruzione – assoluzioni e prescrizioni per gli altri 11 reati – il tribunale ha riconosciuto un risarcimento da parte di Conga e Aracu di 112 mila euro, una minuzia rispetto ai 10 milioni chiesti dall’imprenditore «per essere stato ridotto a una larva dalle tangenti». La Regione, invece, otterrà un risarcimento di 10 milioni di cui, il tribunale, ha deciso che il 30% dovrà essere pagato da Del Turco. Accanto, una serie di condanne che dovranno essere liquidate in giudizio civile a parte per il risarcimento alle Asl e alle case di cura private, tra cui Pierangeli. Infine, tra le ultime decisioni del collegio, c’è la confisca dei beni sequestrati a Conga, Quarta, Cesarone, Del Turco, Aracu ed Angelini e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per Del Turco, Quarta, Cesarone e Conga. Caiazza: «Era scritto che il calvario sarebbe proseguito». Il più provato dalla sentenza è il legale di Del Turco arrivato in tribunale già esausto e stentando quasi a parlare dopo la sentenza: «E’ una giornata di lutto», ha detto Caiazza, «è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale accusato di aver incassato 6 milioni e oltre di cui non si è mai visto un euro. Penso sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria. Si vede che è scritto che questo calvario deve proseguire. Faremo appello», ha concluso l’avvocato per raggiungere, poi, Del Turco a Collelongo.
Trifuoggi: risarciti gli abruzzesi troppa malafede contro i pm
PESCARA Nicola Trifuoggi, ex capo della Procura, resta nelle retrovie della maxi aula 1 mentre il presidente del collegio Carmelo De Santis certifica urbi et orbi che il lavoro della procura non è stato un postulato. E che «la montagna di prove schiaccianti», “locandina” della procura dal giorno degli arresti che decapitarono la giunta regionale di centrosinistra, non ha partorito una sentenza-topolino. Fedele al silenzio l’attuale procuratore Federico De Siervo, tocca all’ex responsabile dei pm, in pensione dall’estate 2012 ma con un futuro ancora da decifrare, tracciare il bilancio e regolare i conti con chi ha imbastito il processo lontano dalle aule giudiziarie, azzardando verdetti e minando l’inchiesta. Lo fa fuori dell’aula, mentre ancora il tribunale non ha terminato di leggere il dispositivo. «È una sentenza», dice, «che ristabilisce la verità su un fatto molto doloroso per l'Abruzzo. Anche il tribunale ha ritenuto che la montagna di prove c’era. Sono professionalmente soddisfatto perché sono state riconosciute la bontà e la correttezza del lavoro della procura. Invece, non sono soddisfatto né come persona né come cittadino: non riesco a gioire per la condanna di nessuno perché una condanna è sempre un fatto grave. Questa sentenza ha riportato la verità sulla sanità, ma non attenua i guasti irreparabili commessi da personaggi autori di politiche dissennate. Questa sentenza restituisce agli abruzzesi quanto è stato tolto loro. Gli abruzzesi meritano di essere risarciti». Ma il discorso scivola inevitabilmente su quelli che i magistrati ritengono attacchi sproporzionati contro la procura: i titoli a sei colonne partoriti su scala nazionale che siluravano l’inchiesta anche quando il processo era lontano, i giornalismi investigativi da strapazzo montati senza conoscere le carte. «Io sono amareggiato per la malafede con cui periodicamente sono partite campagne mediatiche che volutamente diffondevano la falsa notizia di innocenza acclarata. Grazie al loro potere sull'opinione pubblica, hanno finito per creare sconcerto. Su molti giornali e tv, è passata la falsa notizia di un'inchiesta da archiviare: ora mi aspetto anche che parleranno di errore giudiziario o persino di persecuzione». Trifuoggi riconosce e difende il lavoro dei colleghi: «Bellelli e Di Florio sono stati bravissimi. Le loro carriere erano a rischio? Di sicuro, resteranno ai loro posti». Poi, ancora sugli attacchi ricevuti: «Noi non abbiamo mai cercato consensi, siamo stati noi stessi a sollecitare le ispezioni del ministro affinché verificasse la correttezza del nostro operato». Quando il tribunale finisce di leggere il verdetto, in prima fila, un altro pm del trio del pool sanità diventato duo dopo il pensionamento di Trifuoggi, Giampiero Di Florio cede alla tensione di sei in trincea, tra ferie cancellate e ore di svago con il figlio Niccolò ridotte al minimo, e si lascia vincere dall’emozione mentre bacia la moglie. Anche Giuseppe Bellelli ha con sè i familiari: l’inchiesta sanità ha fatto irruzione nel 2007 nelle case dei magistrati e ha stravolto la quotidianità. Quella dei magistrati e quella dei loro collaboratori più preziosi, Antonio Di Nunzio e Fabrizio Schipa, spesso in servizio fuori orario, nei fine settimana, da mediani degli uffici giudiziari. Senza dimenticare il contributo importante di Fabiana Rapino, l’uditore giudiziario. Nel giorno in cui il tribunale appone il sigillo dell’affidabilità al lavoro dell’accusa e di riflesso di tutta una procura, presente quasi al completo momento del verdetto per l’inchiesta più importante degli ultimi 20 anni, il massimo della concessione per i pm del pool sanità è un pranzo da Mc Donald’s in compagnia dei familiari più stretti. Da oggi, si tornerà al lavoro.