ROMA «Qualunque tipo di condanna è inaccettabile»: la delusione era sorda, ieri pomeriggio, in via del Plebiscito, per i sostenitori di Silvio Berlusconi. Fino all’ultimo secondo possibile, lo sparuto gruppo di supporter venuti da Lombardia, Sicilia, Campania per manifestare il proprio affetto al leader, si è aggrappato con la sola forza dell’ottimismo alla parte del dispositivo della Cassazione che rimandava alla Corte d’Appello almeno le pene accessorie. «Non lo interdicono, non lo interdicono», ripeteva come un mantra, incollata al cellulare Giò Broggi, quarantottenne imprenditrice milanese che, da giorni, faceva la spola tra la Lombardia e la Capitale, in attesa che la Cassazione pronunciasse la sentenza. Come lei, Simone Furlan, veneto, fondatore dell’Esercito di Silvio, il gruppo che aveva già organizzato pullman da tutt’Italia per far sentire ai giudici della Suprema Corte la voce del popolo del Cavaliere. Poi è arrivato lo stop da Palazzo Grazioli. «A dire il vero è stato Denis Verdini a dirci di non venire e io rispetto solamente gli ordini di Silvio Berlusconi».
IL PRESIDIO
Quindi i paladini berlusconiani hanno deciso per una via di mezzo, disdettando mezzi e adesioni (già in 500 si erano prenotati per venire a Roma), e organizzando una rappresentanza di una cinquantina di persone «perché era doveroso far sentire a Silvio che siamo con lui, a prescindere da come andrà a finire», spiegavano prima che la sentenza cancellasse le loro speranze, quando il riminese Manuele Speranza, direttore di sala trentatreenne, faceva ogni tipo di scongiuri per un’assoluzione piena: «Vogliamo manifestare la nostra vicinanza a Berlusconi». E Alessio Zanon, dirigente pidiellino padovano e uomo d’azienda, oltre che forzitaliota della prima ora: «Siamo venuti qui a spese nostre, anche in contrapposizione con quanto indicato dal partito. Noi vogliamo cambiare il centrodestra e mandare a casa quelle zucche vuote dei nostri parlamentari, quelli che non vediamo mai sui nostri territori». Fino a un attimo prima della sentenza, per lui il futuro era il ritorno a Forza Italia. Assiepati senza protestare dietro la barriera creata dalla polizia, che pure aveva autorizzato la manifestazione, hanno sperato fino all’ultimo momento in un esito diverso. Poi hanno cominciato ad arrivare le notizie dalla Cassazione. Imprecise.
LACRIME E CHAMPAGNE
«Hanno rimandato tutto in Appello», ha urlato improvvidamente qualcuno, facendo esplodere cori e canti in nome di Silvio, con le bottiglie di spumante pronte a essere stappate e i vessilli sventolanti. Poi la doccia fredda: «Non è così». Telefonate frenetiche e l’insistenza a voler cercare qualcosa di buono nel fraintendimento. Infine, il silenzio davanti ai microfoni dei giornalisti che li incalzavano, le lacrime agli occhi, le bandiere ripiegate, il ritorno a casa mestissimo.
L’ALTRO RADUNO
Altrove, come in uno specchio rovesciato, si festeggiava. Era l’altra piazza, quella della Cassazione, altrettanto sparuta. Ad animarla, il leader di quel che avanza del Popolo Viola, Gianfranco Mascia che a sentenza letta già chiedeva alla giunta del Senato di procedere «per l'interdizione dai pubblici uffici». Alle sue spalle i cartelli con su scritto: «Nessuno è più uguale degli altri» e l’immagine di Berlusconi sopra lo slogan: «Giustizia è fatta». La pace, però, è lontana.