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Data: 04/08/2013
Testata giornalistica: Il Tempo
Caro Presidente, dia la grazia al Cav di Francesco Damato

Caro Presidente,

è la seconda volta che nella mia ormai lunga esperienza professionale mi capita di scrivere una lettera aperta al capo dello Stato. L'altra fu nel 1985 a Sandro Pertini, ma per un caso personale che aveva preso, mio malgrado, una piega e una dimensione superiori al previsto e al dovuto. Di cui dirò più avanti.

Lei sa, Presidente, con quanta simpatia e convinzione abbia, anzi abbiamo seguito il suo primo e stiamo seguendo il suo secondo mandato al Quirinale. Che peraltro fummo fra i primi - con il nostro comune amico Emanuele Macaluso, allora direttore del Riformista - ad auspicare quando era ancora lontana la scadenza del primo. Ma già s'intravvedevano i segni dell'emergenza politica e istituzionale esplosa nella primavera scorsa, quando Lei per fortuna cedette al dovere di farsi confermare, a dispetto della Sua età e del trasloco che già aveva avviato. Ma né la simpatia né la convinzione dell'appoggio al lavoro così meritoriamente svolto sinora al servizio della Repubblica e, più in generale, della democrazia possono trattenerci dal sospetto, quanto meno, che Lei abbia un po' esagerato chiedendo «fiducia e rispetto» nella magistratura anche dopo il verdetto emesso dalla Cassazione su Silvio Berlusconi.

Abbiamo francamente difficoltà a condividere le Sue attese di fronte ad una decisione illogica come quella appena assunta dai «supremi» giudici. Illogica, caro Presidente della Repubblica, ma anche del Consiglio Superiore della Magistratura, per il contrasto sin troppo evidente fra il sì alla pena detentiva di 4 anni e il no alla misura della pena accessoria dell'interdizione. Un sì, il primo, basato evidentemente sulla convinzione che i giudici di Milano, di primo e secondo grado, abbiano svolto con scrupolo e correttezza il loro lavoro, senza prevenzione, consapevole o inconsapevole che fosse, nei riguardi di Berlusconi. Un no, il secondo, basato con altrettanta evidenza sull'accertamento di un rapporto quanto meno distorto fra gli stessi giudici ambrosiani, sempre di primo e di secondo grado, e le leggi della Repubblica. Che non consentivano loro di comminare all'ex presidente del Consiglio una interdizione superiore ai tre anni, contro i cinque assegnati, come ha rivelato il rappresentante della stessa accusa davanti alla sezione feriale della Cassazione, peraltro convocata in tutta fretta per evitare che scattasse la prescrizione su una parte dei reati contestati, quella relativa all'anno 2002. Prescrizione che, in caso di rinvio totale del processo a Milano per un nuovo giudizio d'appello, avrebbe determinato una forte riduzione della pena detentiva e la impraticabilità della pena accessoria, cioè la sostanziale sterilizzazione del procedimento penale. E la conseguente protezione - aggiungiamo - del complesso quadro politico, nel pieno di una crisi che non sappiamo se definire più economica o finanziaria o sociale o istituzionale, dalle tensioni e complicazioni con le quali Lei per primo è chiamato in questi giorni a fare i conti.

La magistratura - si obbietta - non può né deve farsi carico di questo tipo di problemi. Bella frase, bel principio, ma in una visione utopica, non realistica delle cose, perché tutto in un sistema istituzionale e democratico si tiene. Lei stesso, caro Presidente, ha mostrato di esserne convinto non più tardi dell'11 giugno scorso parlando alle toghe in tirocinio, alle quali ha ricordato il dovere che «ogni singolo magistrato sia pienamente consapevole della portata degli effetti, talora assai rilevanti, che un suo atto può produrre, anche al di là delle parti processuali». Ripetiamo: «anche al di là delle parti processuali», come volemmo sottolineare, qui a Il Tempo , in un editoriale proprio alla vigilia delle decisioni della Cassazione sul destino di Berlusconi.

È francamente difficile, diciamo pure impossibile, capire come al Palazzaccio abbiano potuto avvalorare la credibilità, affidabilità e quant'altro di una condanna detentiva emessa dagli stessi giudici di cui si è toccato con mano, e in qualche modo sanzionato, la incapacità o indisponibilità di assai dubbia casualità ad applicare correttamente la legge in tema di pena accessoria. Via, se due più due fanno quattro, o quattro più quattro fanno otto, e se le norme non vengono scambiate per una gabbia in cui si può chiudere a chiave a doppia mandata anche il buon senso, il rinvio prudenziale di tutto il processo ad altri giudici sarebbe stata la soluzione più ragionevole.

Pertanto, caro Presidente, crediamo che a questo punto un Suo ricorso alla grazia non sia scandaloso o provocatorio come vorrebbero gli irriducibili avversari politici di Berlusconi, per quanto siano o possano apparire irrituali, ed anch'essi provocatori, i modi in cui glielo stanno chiedendo in sede politica i sostenitori del condannato. Mi appello a quel buon senso che nel 1985 indusse Sandro Pertini a chiamarmi per condividere la protesta che gli avevo formulato dalle colonne de La Nazione per un arresto che era stato chiesto contro di me per avere pubblicato due anni prima un documento sulle connessioni internazionali del terrorismo. Che la Procura della Repubblica di Roma si ostinava a considerare coperto dal segreto di Stato, per quanto diffuso nel frattempo dal Parlamento fra le carte e le relazioni della commissione d'inchiesta sullo stesso terrorismo e sulla tragica fine di Aldo Moro. «Farò di tutto - mi assicurò Pertini, e ne vidi poi gli effetti finendo ai domiciliari anziché a Regina Coeli, prima di essere prosciolto del tutto - per non vergognarmi di essere il presidente di questa Repubblica». Una Repubblica che forse non riuscirà mai a diventare presidenziale per le paure e il conservatorismo di certa sinistra italiana, ma che non è più neppure parlamentare, essendo di fatto diventata una Repubblica giudiziaria. Odiosamente giudiziaria, in cui i magistrati incutono più paura che fiducia o rispetto, come Lei invece vorrebbe.

Francesco Damato

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