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Data: 10/09/2013
Testata giornalistica: Il Messaggero
Rissa su Berlusconi forse stasera il voto sulla decadenza. Il Pdl: allora è crisi. La Seconda Repubblica nelle mani dei 23 peones

ROMA Il destino parlamentare di Berlusconi si potrebbe decidere già stanotte. E in parallelo anche quello del governo. Oggi alle 20 è fissata infatti una nuova seduta della Giunta per le elezioni del Senato per e votare le proposte del relatore Andrea Augello. Una bocciatura non comporterebbe tout court la decadenza ma aprirebbe la strada all’iter per decretarne «la sopravvenuta incandidabilità». È uno scontro tecnico, sul filo della legittimità costituzionale, e al tempo stesso tutto politico quello che si è consumato per oltre 5 ore ieri pomeriggio nel complesso monumentale di Sant’Ivo alla Sapienza. La decisione di riconvocare la Giunta è arrivata al termine di una prova muscolare tra il Pdl, deciso a contrastare in tutti i modi quello che ritiene poco meno di un colpo di mano, e Pd, Scelta civica e 5Stelle che vogliono invece accelerare i tempi. Il capogruppo Pdl in Senato Schifani ha ripetuto un concetto chiaro: «Se la Giunta vota la decadenza il governo cade». E in serata, a Porta a Porta a Porta, ha aggiunto: «Se si voterà ad oltranza sulle pregiudiziali valuteremo attentamente se partecipare a questo tipo di lavori che ritengo illegittimo». Un piccolo Aventino, insomma.
IL COLPO DI SCENA

Augello lo aveva detto. Ci sarebbe stato un colpo di scena. E infatti al posto della relazione il senatore pidiellino ha presentato tre questioni pregiudiziali - a norma dell'articolo 93 del regolamento del Senato - sui profili di incostituzionalità della legge Severino e ha proposto un ricorso interpretativo alla Corte di Giustizia dell’Unione europea del Lussemburgo. Altra mossa - dopo il ricorso a Strasburgo - non prevista. Accettare di votare le pregiudiziali, senza integrarle alle circa 60 cartelle della relazione, avrebbe significato per il «partito della decadenza» una sconfitta. Nonché una dilazione a tempo indeterminato dei lavori. Per ognuno dei punti sollevati dal relatore ci sarebbe stata infatti una discussione. Ogni capogruppo avrebbe potuto prendere la parola per 10 minuti. Una melina. È stato il momento di maggior tensione. Il grillino Giarrusso ha accusato Augello di «non ha fatto nessuna proposta», «non averci detto se vuol considerare decaduto o meno il Cavaliere».
LA QUASI RISSA

S’è sfiorata la rissa. Le urla del vice presidente della Giunta, il senatore Giacomo Caliendo del Pdl, sono arrivate quasi in cortile. Anche se il socialista Buemi, ultragarantista, ha continuato a parlare di «clima disteso» e di «volontà di approfondire la questione». Temporeggiare almeno fino 19 ottobre, giorno in cui i giudici dovranno ricalcolare l'interdizione per il Cavaliere, rimane l’obiettivo minimo del centrodestra. Che a questo punto potrebbe però decidere di far saltare il tavolo. Stasera il secondo ruond. Augello presentarà un’integrazione della sua relazione. «È molto probabile che si arriverà a un voto», promette il presidente della Giunta Dario Stefàno (Sel). Mentre l’ex magistrato Felice Casson, capogruppo Pd non ne sembra molto convinto.
LE PROPOSTE

Le tre proposte di Augello, sono appunto tre diverse questioni pregiudiziali. Sulla legittimità del ricorso alla Corte costituzionale da parte della giunta, Augello cita vari preceenti tra i quali quello del 2 luglio scorso, sempre al Senato: «Gli esponenti del gruppo del M5s che erano favorevoli a sollevare la questione». Le altre due parti sono dedicate ai motivi di ricorso, dieci per ciascuna proposta, alla Corte costituzionale e a quelle europea del Lussemburgo. Per quelli alla consulta Augello punta in particolare sull'irretroattività delle pene, mentre nel ricorrere al Lussemburgo aggiunge il tema dei limiti all'eleggibilità dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri paesi dell'Unione europea.

La Seconda Repubblica
nelle mani dei 23 peones

ROMA Il luogo è evocativo. E non perché la chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza la costruì Borromini. Semmai perchè papa Alessandro VII disse che «il cortile di questo complesso dev’essere bello come un grande palcoscenico». E infatti, per un’ineluttabile fatalità della storia, in questo scenario maestoso finì la Prima Repubblica nel ’93 e rischia ora di concludersi la Seconda Repubblica. Giusto vent’anni dopo. Con il voto di decadenza - lui lo chiama «la mia fucilazione» - di Berlusconi. Arriverà anche il Cavaliere, uno dei prossimi giorni, per farsi ascoltare, come fece a suo tempo Giulio Andreotti quando qui fu votata l’autorizzazione a procedere dello statista Dc appena rinviato a giudizio dal tribunale di Palermo, e in questi spazi si cominciò a parlare per la prima volta del suo bacio con Totò Riina?
IERI, OGGI
Sembrano fresche - vent’anni dopo, davanti a un mare di giornalisti e telecamere più numerose perfino di quelle arrivare ieri a Sant’Ivo da tutto il mondo - le immagini del Divo Giulio finito nella polvere e con un cerotto sul volto, perchè si era tagliato facendosi la barba al mattino. Ma arriverà il Cavaliere in questo cortile che, visivamente, si presta ai roghi? «Un po’ c’è il drama e un po’ c’è il funny», dice in un inglese maccheronico l’inviato della tivvù sudcoreana Kbs (lui si chiama Yang Sung Dong) e aggiunge: «Nel nostro Paese siamo appassionati alle vicende di Berlusconi quanto voi. Alcuni lo vogliono libero, altri no. Fifty fifty». Le stesse proporzioni non si riscontrano intorno al tavolo, all’ultimo piano del palazzo di Sant’Ivo dove potrebbe finire il ventennio berlusconiano e dove i magnifici 23 della Giunta, berlusconiani e anti-berlusconiani, tutti più o meno peones assurti alla celebrità mediatico-politico e se la godono tutta, si danno battaglia per più di cinque ore. E da loro - signor nessuno? - dipendono a questo punto i destini del Paese. Circola una battuta: «Ma il futuro dell’Italia può stare nelle mani di uno che ha i capelli a caschetto e la frangetta che gli arriva alle sopracciglia e forse le supera?». Il riferimento è al look del presidente della Giunta, Dario Stefàno, un moderato di Sel. Il quale dice: «Qui non ci sono ultrà». Però ci sono mastini. Come il grillino Marino Buccarella il cui motto è: «Conduco una battaglia personale contro le seghe mentali». E però, quando lui e l’altro pentastellato Giarrusso, un omone dotato di cravattone rosso che sembra il poncho di Garibaldi, scendono più volte in cortile per bearsi del bagno di visibilità, dicono tutto e il contrario di tutto. In entrata e in uscita dal palazzo del verdetto i 23 peones («Ma quello chi?», si chiedono vicendevolmente i cronisti con in mano le foto degli illustri sconosciuti) devono solcare una passerella, che somiglia a quella che viene piazzata fuori dalla sala alla Vetrata del Quirinale quando si fanno le consultazioni per formare un nuovo governo. Il magistrato Casson (del Pd) dice: «Siamo un organo politico». Il politico Augello, esperto di draghi e un drago nella capacità di allungare il brodo («Ma noi non lo beviamo!», è la contro-manovra di democrat e grillini che si detestano ma in nome della decadenza di Silvio hanno preso a tubare), dice: «Siamo un organo giurisdizionale e non politico». Tutti rischiano di finire stritolati dai propri cavilli, e a un certo punto sembra che nessuno capisca più niente. E l’unico lucido (forse) è quello che sta fuori di qui ma in effigie è anche molto qui dentro: il Cavaliere che minaccia crisi nel caso venga infilzato. Silvio non è Andreotti. Anche se l’avvocato è lo stesso: Coppi per il Divo Giulio, Coppi per il Cavaliere.
L’HAPPENING
Ma quella volta non c’erano i turisti giapponesi che partecipano a questo happening e non possono credere che quella signora (che pure una volta fu fotografata mentre s’inerpicò lungo il busto di Obama per abbracciarlo subito dopo il terremoto dell’Aquila: stiamo parlando della democrat Stefania Pezzopane) sia subissata da un numero di microfoni maggiore di quelli che può vantare il presidente degli Stati Uniti mentre dichiara la guerra mondiale alla Siria. Ma i mastini, sia in versione maschio sia in versione femmina, li hanno anche quelli del Pdl: Malan («Vado in battaglia!»), Caliendo (fuma una sigaretta dopo l’altra: «Mi rilassano nei momenti topici»), Giovanardi (si sa), Elisabetta Alberti Casellati (ancora convinta che Ruby sia la nipote di Mubarak).
Il più insidioso di tutti, un Casson al contrario e infatti dalla sede del Pd è partito l’allarme: «Attenti a D’Ascola!», è quello meno appariscente. Lui è l’unico che passa rasente ai muri, per non farsi vedere. Si tratta appunto dell’avvocato calabrese Nico D’Ascola, un Dottor Sottile del berlusconismo azzimato, uno che parla dicendo «orbene» e «ancorchè», e spiega: «Dal 1948 ai primi anni ’90, siamo stati in una Repubblica socialista senza essercene avveduti».
Mentre adesso, per la gioia o per la disperazione degli italiani, e come si è visto anche dei coreani, potremmo essere una Repubblica deberlusconizzata. E questo verrà deciso sul palcoscenico di Sant’Ivo. Che da Borromini ad Andreotti è abituato ad ospitare le star e le stelle cadenti.

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