ROMA Grida Renato Brunetta, nel giorno in cui la destra berlusconiana si rimpicciolisce e il centrone moderato si allarga ma la Merkel del Pdl ancora non c’è: «Sfiducia all’u-na-ni-mi-tà!». Devo ripetere? «Noooo». «Allora lo ripeto: u-na-ni-mi-tà!». Lo dice, lo urla, lo twitta Brunetta. Ma poi? Dietro-front? «La mia non è stata una marcia indietro», assicura il Cavaliere. E’ stata infatti una marcia avanti ma anche indietro, indietro e avanti, una molteplice piroetta, una raffica di capriole con doppio, triplo e quadruplo avvitamento. E che attore il Cavaliere. Arriva in aula con la mano in tasca e l’aria distratta come quella di una star che non deve dimostrare più niente. E che mattatore illusionista Silvio Houdini, che è riuscito magicamente a trasformare la sua sconfitta in una ritirata e a fare evaporare il suo tracollo nella caricatura paradossale di un dramma a lieto fine. Non per tutti, però. Forse per nessuno. E neppure per lui, almeno a giudicare dalle mani che si mette più volte davanti agli occhi e dalla testa che si prende spesso tra le mani: gesti di chi non vuole vedere la fine di un ventennio, di chi cerca di attutire i duri colpi della realtà. Dopo avere cambiato, con ritmo da pochade, quattro posizioni in un’ora, Berlusconi si assesta (si fa per dire) sul sì a Letta (235 voti per il governo al Senato, 435 alla Camera), con sei dissenzienti rispetto alla sua nuova linea perchè fedeli alla sua linea antecedente («Letta va abbattuto»).
C’è chi, come Nunzia De Girolamo, ministra, in questa altalena impazzita tra opposizione e governismo, sta di qua - seduta ai banchi del Pdl quando è lotta - e sta di là - ai banchi del governo - quando il leader s’è spostato sull’accordo. E’ tutta un ribaltamento continuo la giornata di ieri. Il falco Verdini era entrato trionfante in aula al mattino, insieme al Cavaliere. Aveva goduto nel vedere Silvio che si siede non al proprio posto - quello vicino a Schifani - per non essere imbarazzato dal fatto che lui vuole abbattere il governo Letta mentre il capogruppo no. Poi ha l’aria di chi ha già vinto la partita il duro Denis: «I traditori non toccano palla». Ma quando la scena si capovolge - e Silvio viene trascinato nell’area della bontà dalle truppe alfaniane - Verdini non sorride più. Mentre Quagliariello e gli altri «diversamente berlusconiani» già organizzano la cena della vittoria e alcuni di loro parlano così: «Ora Berlusconi è soltanto un esponente del Pdl di Alfano e di Quagliariello». Ma che si comporti bene. Sennò... «Che fai, mi cacci?», è l’unico guizzo sorridente del Cavaliere, rivolto da lontano ad Angelino, sulla falsa riga della proverbiale battuta di Gianfranco Fini che ne segnò il destino. Il simbolo del centrodestra spaccato è quella calza smagliata con cui Michela Vittoria Brambilla si aggira a Montecitorio e in questo caso - e non solo in questo - non c’è rattoppo che tenga. Si può ricucire, per esempio, la testa di Daniela Santanchè? La Pitonessa, vestita di azzurro («Vogliono sbiancare questo colore coprendolo col bianchiccio democristiano, ma non glielo permetterò»), si fa vedere poco. E quando le viene chiesto perchè, lei risponde e minaccia: «Perchè non ho più la testa. Me l’hanno tagliata, per portarla nel vassoio ad Alfano. Ma la guerra non è finita qui». Si trema. Si trama.
Quando sembra che il Pdl sia finito all’opposizione - è la decisione numero uno e tre del Cavaliere, mentre la due e la quattro sono di aggrappo a Letta - il falco Ghedini e il grillino Giarrusso, membro della Giunta che venerdì farà decadere Silvio, si appartano in un angolo di Palazzo Madama ed ecco il colloquio carbonaro quasi in contemporanea alla lunga standing ovation per Napolitano appena il premier ha ringraziato il Capo dello Stato per la sua guida e per la sua sapienza. Dice Ghedini a Giarrusso: «Insieme lo faremo ballare per bene il governo Letta». Che gioia questa strana larga alleanza, se non fosse che dura il tempo di una battuta, perchè poi piove il dietro-front in tre minuti del Cavaliere con occhi velati di lacrime coniugate al sorriso da jockerman (quello della celeberrima canzone di Bob Dylan dice tra l’altro: «Giudici falsi di cuore moriranno nelle ragnatele che essi hanno tessuto»). E Ghedini e gli altri, compresa la Santanchè che pronuncia a denti stretti il suo sì in aula e viene subissata dai fischi democrat ma anche alfaniani, cambiano umore e cambiano sapore. Proprio mentre Silvio sta ciucciando. Che cosa? I confetti di Sulmona che gli porge Paola Pelino, senatrice abruzzese, e lui condivide lo spuntino con la ”badante” Maria Rosaria Rossi, Schifani, Verdini e l’inseparabile Scilipoti. Il quale sta seduto dietro a Silvio (lo pugnala o lo accarezza?) e spiega al leader azzurro che «i dissidenti che hanno firmato la lettera per la fiducia sono come me e i miei Responsabili due anni fa». Silvio risponde con uno sbadiglio. Poi ride della battuta che gli viene in mente: «Mi ha detto Quagliariello che anche Dudù aderisce la nuovo gruppo dei Popolari».
E sempre lui, il primo attore, a un certo punto poggia la guancia sulla propria mano come capita agli studenti svogliati, chiude gli occhi perchè ha sonno, non sa che cosa fare ma quando mediatori fedelissimi come Romani e Schifani gli dicono che i conti non tornano (e a Verdini s’è impallato il pallottoliere) Berlusconi sembra ritornare in sè. Fa il suo ennesimo numero in aula - dopo aver appena detto alla riunione dei senatori che si sarebbe votato contro Letta e lo dice in quella sala Koch del Senato dove verrà votata tra pochi giorni la sua cacciata dal Parlamento - e il premier si abbandona a un’esclamazione più di stupore che di ammirazione, più sconsolata che contenta: «Berlusconi è proprio un grande!». Mentre Alfano, gemello siamese di Enrico, fa un sorrisone liberatorio appena Silvio scioglie la suspense e con Letta battono il cinque. Se il microfono di Berlusconi non avesse funzionato, per il Pd sarebbe stato meglio (l’idea del contagio di Berlusconi nel governo fa rabbrividire i più, ma lui sembra ancora più bravo di loro e sa come farli soffrire), ma dopo qualche cilecca («Non volete che parlo?») afferra un altro microfono e cambia il senso a una giornata gremita di colpi di scena. Come questo. Che lui racconta così: «Quando ho visto che i tra i firmatari del no alla sfiducia c’erano senatori come Gentile e come Viceconte, persone serie, berlusconiane quanto me, piene di voti nei loro territori, allora mi sono detto: qualcosa non va». I suoi fedelissimi, come quelli appena nominati, non hanno trascorso notti insonni a causa del tormento di dover dire a Berlusconi che stava sbagliando e per la preoccupazione di doverlo salvare contro la sua volontà. Il salvataggio a tempo del Cavaliere viene da tipi così, politicamente pesanti, come anche il deputato e coordinatore abruzzese Filippo Piccone. Quando Silvio apprende i numeri veri (dopo che seduto all’ultimo banco Verdini comincia a depennare i nomi degli arditi: «Questo non è più dei nostri, questo nemmeno, questo neppure...»), quando Schifani gli dice «io non me la sento di fare il discorso della sfiducia» («Lo faccio io!», si propone la Mussolini e aggiunge riferita ad Angelino: «Abbasso Badoglio»), quando l’amico Bonaiuti nella riunione batte sul becco del falco Ghedini e ne demolisce la strategia sfascista, Silvio si convince. E si abbarbica ad Alfano come Anchise aggrappato ad Enea, ma la politica è più spietata dell’epica - è tutto dire - e lo sconfitto è Silvio che quando perde fa invasione di campo e sparge una marmellata nella quale cerca di nascondersi. Ma anche i «diversamente berlusconiani» sanno come imbrigliarlo. Gli stendono addosso una ragnatela neo-tarda-democristiana, che lo stritola e lo stordisce in un vortice di gruppi autonomi che nascono ma forse no, di tradimenti che non si capisce quanto siano tradimenti e quanto (forse poco) trame per il suo bene, di annacquamenti e di rinvii della resa dei conti ma un parricidio non brutale e non fulmineo comunque è in corso.
In tutto ciò, Brunetta irrompe nella riunione con Berlusconi degli azzurri a Palazzo Madama. Prova a incendiare gli animi contro Letta. I senatori pugliesi lo accolgono a brutto muso: «Non ti basta aver rovinato il partito? Ora viene qui a dettare legge, tu che non sei manco senatore? Ma vattene! Vattene!!!». Se ne va e proprio lui, il falchetto Brunetta sarà l’autore del discorso della fiducia alla Camera: «Questo è il nostro governo, presidente Letta». Il democrat Gentiloni coglie il paradosso e punzecchia: «Brunetta sta inaugurando la maggioranza di opposizione, o viceversa». Intanto Berlusconi è altrove. E una piccola folla lo ha fischiato all’uscita dal Senato. Un Cavaliere ormai sospettoso su tutto e di tutti. E tra i pensieri, diceva Francis Bacon, quello del sospetto è come il pipistrello tra gli uccelli: «Si alza in volo sempre al crepuscolo».