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Data: 13/10/2013
Testata giornalistica: Il Centro
Storie di vita/Adelchi De Collibus - «Ai giovani dico: fate politica e siate curiosi», L’ex sindacalista e assessore alla Cultura: troppi progetti faraonici penalizzano Pescara

Con l’amico Veniero de Giorgi acquistammo una pagina del Centro per celebrare il ricordo della Rivoluzione d’Ottobre
L’opera più grande della nostra amministrazione è stata la ristrutturazione dell’ex Aurum che rappresenta l’essenza stessa di Pescara
La giunta D’Alfonso aveva il merito di fare squadra Non siamo mai stati paralizzati da litigi cosa che invece avviene oggi

di Paola Toro wPESCARA Adelchi De Collibus si fa trovare nella biblioteca dell’Ospedale civile di Pescara. È lì che fa volontariato, due volte a settimana, a servizio dei degenti che desiderano prendere un libro in prestito. Lì, nell’odore della carta invecchiata, si racconta. A sessantanove anni è una memoria storica di Pescara, eppure lui è pescarese di adozione. Nato a Milano da genitori abruzzesi, sua madre era di Atri. È venuto a Pescara da adolescente per studiare all’Acerbo. Poi il lavoro, la famiglia e, dal 1981, la Cgil, che lo ha chiamato affinché entrasse a far parte della squadra del sindacato. Ci è entrato e ci è rimasto sino al 2003, quando i vertici cittadini del Pd gli hanno chiesto di candidarsi per amministrare la città. Di lì a poco sarebbe diventato l’assessore alla cultura della prima giunta D’Alfonso. «Sono sempre stato un indipendente», tiene a precisare, «un cane sciolto. Ho votato sempre nella stessa direzione ma non ho mai avuto tessere. Da giovane militavo nel Pci, in tanti volevano convincermi a portare un cartellino: non mi sono fatto convincere». Come è maturata la sua passione per la politica? «È stato in coincidenza con l’inizio dei miei studi universitari in lingue, studi che non ho mai concluso, e con i movimenti del ’68. Io la politica non l’ho solo fatta, l’ho vissuta con la vita e la passione per la cultura. Ricordo con entusiasmo gli anni ’70, li ricordo per la mia militanza nell'Arci. Abbiamo realizzato il festival del teatro universitario e quello del teatro contemporaneo, portammo a Pescara tutti gli esempi più alti come Valentino Orfeo, Mario Ricci. Fu una gran bella stagione». Assessore alla cultura del Comune di Pescara, dal 2003 al 2008. «L'esperienza di assessore ha lasciato in me tracce di disincanto: la conoscenza dal vivo degli artisti può contribuire a ridimensionare l'aspetto suggestivo di questo ambiente. Personalmente, sono rimasto molto affezionato ad alcune mostre tra le tante organizzate. Quella legata alle donne, fatta d’intesa con il Chiostro del Bramante di Roma. Poi ancora quella dedicata ad Andy Warhol, con le sue 30mila presenza». Ricorda un’iniziativa di quegli anni che la rende particolarmente orgoglioso? «L’iniziativa che prendemmo nel 2005, di regalare ad ogni nuovo nato un libro. Un libro e un diario, sul quale i genitori avrebbero potuto annotare le prime letture del proprio bimbo per poi poterlo sfogliare nel tempo». C’è qualche aspetto che rimpiange, nella sua esperienza di amministratore? «Sono un uomo molto severo nei giudizi per me stesso, e al contrario molto tollerante con gli altri. Sono tante le cose che avrei da rimproverarmi, nella mia esperienza ho portato a termine il 50 per cento delle cose che avrei desiderato. Non ho potuto farle sia per difficoltà economiche e sia perché, forse per un eccesso di democrazia, mi sentivo assessore di tutti, non solo di una parte, quindi per non far torto a nessuno non ho portato avanti tutto quello che avrei voluto». Ad esempio? «Avrei voluto realizzare il completamento del museo del mare. Sono contento ma solo a metà. Sono contento dell’acquisto del teatro Michetti, che però poi non è stato completato nella ristrutturazione. Ecco, una cosa che mi piacerebbe fare è quella di scrivere una la storia di un pescarese di cui nessuno parla, Fernando Giordano. Era stato ufficiale borbonico, nato in corso Manthonè, tra d’Annunzio e Flaiano, quando si affermò il Risorgimento, tanto era il suo valore che gli proposero di entrare nell’esercito piemontese promuovendolo. Lui rifiutò. Si ritirò a Pescara dove visse in maniera umile insegnando le cose che sapeva fare: la scherma, la pittura, la quadriglia. Morì nel 1901 di stenti, e al seguito della sua bara c’erano solo il suo medico curante e un vicino di casa. La sua figura rispecchia molto quella del pescarese, che da una parte è capace di ricoprire incarichi di rappresentanza ma dall’altra non rinuncia mai alle sue opinioni, rimane coerente». Qual è stata secondo lei la strategia vincente dell’amministrazione della quale ha fatto parte? «Siamo stati sempre molto attenti alle intelligenze del territorio, a chi dimostrava passione. La cosa più importante che abbiamo realizzato per Pescara è sicuramente il restauro dell’Aurum, che racchiude l’essenza stessa di Pescara. E poi il Ponte del mare, la pineta dannunziana, il riassetto urbanistico». Che cosa separa la politica di 10 anni fa da quella di oggi? «Quella di oggi è una città troppo presa, politicamente parlando, da un demone costantemente presente: è l’eterno confronto con la giunta di Luciano D’Alfonso, una visione che paralizza la città. Noi abbiamo sempre avuto un’ottica di squadra, siamo rimasti compatti, le giunte servivano per vagliare progetti importanti, per mettere a punto le opinioni di tutti. Non siamo mai stati paralizzati dai litigi. La prima preoccupazione degli amministratori di oggi è l’enfatizzazione della grande Pescara, un concetto che sa più di spiccato provincialismo che di modernità, e che non porta a nulla». Che cosa vuol dire? «Pescara è un’eterna perifrastica. È una città che è sempre in procinto di fare un salto che poi non riesce a fare. C’è troppa megalomania. Secondo me Pescara dovrebbe rassegnarsi ad essere una bella città di frontiera dove la gente cresce o arriva, si può trasferire o può decidere di rimanere vivendo serenamente. Bisogna essere consapevoli di questo aspetto senza lasciarsi travolgere dal gigantismo che, al contrario, limita la città. Basti pensare che Pescara si definisce città dannunziana quando d’Annunzio lo si conosce così poco. Meglio allora definirla “città di d’Annnunzio”». Tornerebbe in politica? «No, non ci tornerei. Prima di tutto perché ormai non ho più l’età. Non basta dire sempre «largo ai giovani», senza farsi da parte. Bisogna anche fare i fatti. Ma la mia scelta non ha solo una motivazione anagrafica: l’esperienza che ho vissuto dieci anni fa mi ha aiutato, allora, a completare un percorso di vita. Se rientrassi oggi non aggiungerei nulla al mio percorso. Oggi faccio il volontario nell’associazione Form-Art che si occupa del recupero dei libri dismessi. Due volte a settimana sono in ospedale, in questa biblioteca. E poi leggo, tanto. Ora non aggiungerei nulla con la politica.» Consiglierebbe ad un giovane di avvicinarsi all’attività politica? E se sì, con quali accorgimenti? «Sì, certo, i giovani devono avvicinarsi. Consiglio loro intanto di porsi la politica come problema. Trascurare la conoscenza e la pratica della politica significa non garantirsi una crescita personale. Un unico accorgimento: quello di essere molto curiosi: la curiosità è alla base della conoscenza». Mentre parla, De Collibus sfoglia una pagina del Centro del 1991 e ricorda l’amico da pochi giorni scomparso, il fotografo e pittore Veniero de Giorgi: «Quell’anno comprammo una pagina del Centro, quando a dicembre si commentava con malinconia l'annuncio di Eltsin che avrebbe ammainato la bandiera della Rivoluzione d'Ottobre dal Cremlino. Eravamo 25 amici, ed acquistammo l’ultima pagina di pubblicità del giornale, la più costosa. Lo facemmo per lanciare il ricordo della Rivoluzione, e lo sfondo era proprio una foto di Veniero scattata in occasione del suo viaggio in Cina. C’era scritta questa frase: «Corvo bianco, non avrai il mio scalpo. I sogni, ritornano...»

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