ROMA Quando parla della Fondazione Nuovo Millennio, Pellegrino Capaldo - che ne è l’anima e il frontman - usa il noi. Quando descrive la situazione dell’Italia, pure. «La nostra impressione - spiega - è che sia molto diffusa, tra i cittadini, la preoccupazione sul futuro del Paese e che sia altrettanto diffuso il convincimento che, per evitare il peggio, occorra un cambio di passo da parte di tutti: cittadini e politica». E siccome è vero che le buone idee non bastano per fare la politica ma anche che senza di esse tutto degenera, il professor Capaldo mette sul piatto una proposta che va al nocciolo del problema: il rapporto tra soldi, politica e cittadini. A partire dalla legge sul finanziamento ai partiti approvata dalla Camera e ora al Senato, che per Capaldo accresce i problemi invece di risolverli. Per questo la Fondazione ha preparato una proposta completamente alternativa.
Come funziona, professore?
«Il cittadino deve poter finanziare la politica indipendentemente dal reddito di cui dispone. E’ un compito che non può essere esclusiva delle persone ricche e nemmeno di quelle più agiate bensì dev’essere esteso il più possibile anche con il sostegno dello Stato. Possono essere ideati vari meccanismi. Il nostro è molto semplice: noi proponiamo che lo Stato accordi un credito d’imposta del 95 per cento al cittadino che versa soldi alla politica fino ad un massimo di 2 mila euro. Per questa via, il finanziamento della politica rimane, in larghissima parte, pubblico ma – ed ecco la sostanziale differenza rispetto all’attuale sistema – esso dipende dalle scelte e dalle decisioni dei singoli, dalla loro intermediazione».
Che cosa è esattamente il credito d’imposta?
«E’ il credito che il cittadino vanta nei confronti dello Stato a seguito del contributo versato ad organismi politici. Secondo la nostra proposta, tale credito è utilizzabile immediatamente per pagare imposte di qualunque tipo. Per esemplificare, il lavoratore dipendente può chiedere al proprio datore di lavoro l’immediata compensazione di tale credito con le imposte che gli dovranno essere trattenute sullo stipendio dello stesso mese in cui ha effettuato il versamento. Il lavoratore autonomo lo può compensare con tutti i pagamenti che, a qualunque titolo, deve fare all’erario».
Scusi, non è sproporzionatamente elevato un credito d’imposta del 95 per cento?
«Se ci si propone – come noi ci proponiamo – di democratizzare al massimo il finanziamento della politica e di consentire al più alto numero di cittadini di parteciparvi, dobbiamo elevare quella percentuale fino a renderla prossima al 100 per cento. Diversamente escludiamo dal finanziamento della politica una larghissima fetta di popolazione. Per esemplificare, una persona che voglia dare alla politica 200 euro sosterrà un costo effettivo di 10 euro (perché riceve un credito d’imposta di 190 euro); e questa è una cifra più o meno alla portata di tutti. Ma se abbassiamo il credito d’imposta, poniamo al 50 per cento, è chiaro che quella stessa persona sosterrà un costo di 100 euro. Il che taglierebbe fuori fasce crescenti di cittadini. Né vale obiettare che un credito d’imposta così elevato si presta ad abusi. E ciò per due ragioni. Innanzitutto perché il rischio di abusi può essere, sul piano pratico, efficacemente contrastato. E poi perché si può anche correre qualche rischio se questo è l’inevitabile prezzo da pagare per accrescere la partecipazione dei cittadini alla politica. Ciò spiega anche perché noi limitiamo il sostegno fiscale (e quindi il credito d’imposta) alle sole persone fisiche ed escludiamo tutti gli altri soggetti a cominciare dalle imprese. Dietro le imprese, infatti, vi sono imprenditori ed azionisti: essi, se vogliono, possono finanziare personalmente la politica senza trincerarsi dietro le loro imprese. Sappiamo bene che in altri Paesi – soprattutto in quelli ai quali, chissà perché?, guardiamo con maggiore sudditanza intellettuale – le imprese finanziano la politica. Ma noi riteniamo che se vogliamo migliorare veramente la politica dobbiamo escludere le imprese dal suo finanziamento. Di certo dobbiamo escludere ogni forma di sostegno pubblico al finanziamento proveniente dalle imprese. Forse lo dovremmo impedire tout court. Ma di questo si può discutere».
A parte le agevolazioni fiscali, il vostro progetto prevede un tetto ai contributi privati ai partiti?
«Non abbiamo previsto limiti massimi perché non volevamo – come dire? – essere troppo dirompenti. Ma secondo me un limite va posto e deve essere piuttosto basso: ad esempio 20-30 mila euro per persona fisica, mentre andrebbe tendenzialmente esclusa la possibilità di finanziamenti da parte di soggetti diversi dalle persone fisiche».
Però il progetto governativo prevede anche che il contribuente possa destinare il 2 per mille delle proprie imposte sul reddito a favore di un partito.
«La sostanza non cambia perché questa formula favorisce i cittadini ad alto reddito. Ed infatti una persona che guadagna, poniamo, 30 mila euro all’anno e paga circa 7 mila di imposta può dare alla politica soltanto 14 euro (il 2 per mille di 7 mila); mentre chi guadagna, poniamo, 10 milioni di euro all’anno ne può dare circa 10 mila. Questo per noi è profondamente discriminatorio: non si può penalizzare il cittadino che guadagna poco, tanto più che spesso il fatto di guadagnar poco è la conseguenza della sua scelta di dedicarsi ad un lavoro di alto valore sociale (infermiere, insegnante, ecc.) pur se poco remunerativo. Ecco perché noi adottiamo un metodo che fa sostanzialmente cadere le differenze di reddito tra i cittadini e li pone pressoché su un piede di parità».
Quali emendamenti apporterebbe al disegno di legge governativo?
«Con tutto il rispetto per coloro che hanno lavorato alla sua stesura, ritengo il progetto non emendabile».
Professore, quali le altre proposte della Fondazione Nuovo Millennio?
«Ne abbiamo fatto in materia di lavoro, impresa, fisco, rapporti con l’Europa, e così via. Almeno per ora l’esito, però, è lo stesso: o la politica non si è occupata delle cose cui si riferiscono le proposte o quando se ne è occupata ha adottato soluzioni che vanno in altre direzioni; in direzioni che a noi appaiono sbagliate. Staremo a vedere».
Recentemente la Fondazione ha lanciato un ”Appello”. Di che cosa si tratta?
«L’Appello nasce dal convincimento che l’Italia è sull’orlo di un baratro, da cui fortunatamente può ancora ritrarsi, sia pur a fatica e a certe condizioni. Ci rivolgiamo alla politica per chiedere sostanzialmente due cose. La prima di stimolare, anche con provvedimenti fiscali (che sarebbero comunque di limitata onerosità per la finanza pubblica) una maggiore partecipazione dei cittadini. La seconda è di costruire un grande Progetto-Paese che disegni il ruolo dell’Italia in un mondo che, a seguito della globalizzazione, va sempre più specializzandosi; un Progetto che porti un po’ di coesione sociale di cui il Paese ha disperato bisogno; che risvegli il senso di appartenenza di tutti i cittadini; che chiarisca definitivamente i nostri rapporti con l’Europa».