ROMA «Mi appello al senso di responsabilità collettivo. La sfiducia al ministro Cancellieri sarebbe una sfiducia al governo». Il Gurdasigilli non si tocca. Perché non ci sono fatti nuovi dal punto di vista giudiziario né colpevolezze tali da chiederne le dimissioni. Stretto tra il ciclone meteo che ha devastato la Sardegna e quello politico che rischia di far implodere il Pd, Enrico Letta rientra a Roma in serata e si precipita all’assemblea dei gruppi del partito per blindare il ministro della Giustizia. La mozione di sfiducia presentata dal M5S, che sarà votata questa mattina a Montecitorio, divide il partito e mette a dura prova la tenuta del governo. L’obiettivo del premier è quello di scongiurare una “conta” tra i democratici che, sfiduciando il ministro, sfiducerebbero di fatto l’esecutivo. «La nostra unità è l’unico punto di tenuta del sistema politico» spiega il presidente del Consiglio, che attacca il movimento di Grillo e contesta una sfiducia presentata con «argomenti aggressivi e marcati» e «frutto di una campagna aggressiva molto forte e slegata dal merito». E la risposta a tutto questo, per il premier, deve essere un «atto politico: un rifiuto». La presenza di Letta, che chiede di non far saltare il governo, convince i leader di tutte le correnti del Pd a rimettere nel cassetto i propositi di guerra. Un sì, anche se accompagnato da mille distinguo, alla fine arriva anche da Matteo Renzi, per il quale il ministro della Giustizia si dovrebbe dimettere anche senza un avviso di garanzia perché «bisogna dare un segnale agli italiani». Dicono di sì anche Cuperlo e Civati («anche se non sono d’accordo»). «La questione non è la telefonata per interessarsi a un caso di salute ma la credibilità del racconto proposto dal ministro, che chiama la famiglia di tre arrestati e un latitante dicendo che non è giusto ciò che sta accadendo» scrive Renzi, per il quale la Cancellieri «ha perso l’autorevolezza necessaria per fare il ministro» ed Enrico Letta ha un solo modo per evitare una devastante conta interna: farsi garante del ministro della Giustizia e porre il tema in termini di sostegno al governo nel suo complesso. Che è esattamente quel che ha fatto ieri sera il premier. «O il presidente del consiglio “ci mette la faccia” e si prende la responsabilità sulla vicenda, io fossi in lui non lo farei, oppure il Pd deve votare e a quel punto i singoli parlamentari diranno come la pensano» aveva intimato Renzi, con il preciso obiettivo di intensificare la sua campagna in vista delle primarie. Ma il sindaco di Firenze, che per tutto il giorno è stato impegnato in una lunga e difficile mediazione con Guglielmo Epifani e con il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Dario Franceschini, alla fine decide di “adeguarsi”. Ma non rinuncia a tenere Letta sulla corda fino all’ultimo. E Paolo Gentiloni si presenta all’assemblea con la “pistola carica”: un ordine del giorno, in cui chiede le dimissioni della Cancellieri, che valuterà se mettere ai voti dopo aver ascoltato Letta. Poi, arriva la schiarita: «Quando il premier viene qui e ci dice che c’è un voto politico sul governo, io ne prendo atto ma lo faccio con un certo rammarico perché non c’è il merito della discussione» dice Gentiloni. «Non sono d’accordo su come è stata posta la discussione», dice invece Civati. «Sicuramente non si può votare la mozione M5S, ma si poteva discutere che fare, ma se l’opinione della maggioranza è questa, mi attengo».