ROMA Finisce il Pci. Ex, post, para, simil, quasi, o come si voglia chiamarlo, quel che fanno di queste primarie un fatto storico è che si chiude la lunga storia incardinata attorno al Pci. Gloriosa e onusta quanto si vuole, ma si chiude. C’era una volta la «ditta». Un partito che a vista di tutti era fondato su un contenitore a stragrande maggioranza ex diessino, si è ritrovato d’incanto a dominanza “altra”, con i post pci ritrovatisi in minoranza nel loro contenitore. Un intero gruppo dirigente che aveva sapientemente cooptato finora, e anche ammaestrato e diretto, i cattolici ex dc fino a Romano Prodi si può dire («e noi conferiamo a lei, professore, la sovranità di questa coalizione», disse l’allora leader Massimo D’Alema alla nascita dell’Ulivo), si è visto alla fine sfidato e messo ko da un giovane di non ancora 38 anni, sindaco di Firenze, non ex dc, non post qualcosa, ma semplicemente democratico, venuto alla politica con l’Ulivo e il Pd. «Ho votato per la prima volta nel 1994», ricorda Renzi. Fino alla segreteria di Pierluigi Bersani, il Pd sembrava destinato a essere l’ennesima tappa della filiera Pci-Pds-Ds-Pd, che non è solo uno spot berlusconiano, racchiude una verità.
LA FILIERA DI OCCHETTO
Quando si chiedeva a D’Alema segretario di indicare i suoi possibili successori, l’allora leader Maximo era solito tracciare una linea verticale con alcune caselle: Veltroni, Fassino, Mussi. Tolto lui, D’Alema, che si considerava fuori quota, quella filiera altro non era che la nidiata della svolta di Achille Occhetto dopo il crollo del Muro di Berlino, tappa fondamentale in cui si chiuse il Pci quanto al nome, ma non alla sostanza, ai punti di dottrina, alla visione della società, soprattutto al gruppo dirigente. Un gruppo dirigente rimasto sostanzialmente uguale a se stesso, che ha gestito i vari passaggi scontrandosi al proprio interno, ma sempre dentro se stesso. Quella nidiata si è mossa sempre dentro un alveo segnato, una logica fissa, finanche con l’eterodosso estremo Veltroni, senza mai mettere in discussione i punti base della propria esperienza e cultura politica. E un punto base, un assioma vero e proprio, era la primazia del partito, il partito viene prima di tutto, con i derivati della sacralità del segretario e dell’unità interna. Matteo Renzi vince e convince perché non è l’epigono di una storia passata, ma il pioniere di una storia nuova. Più che andare contro una storia va oltre, la chiude. Fa un’Opa non ostile. «Noi facevamo a gara per portare i vecchi dalla nostra parte», ha ricordato Occhetto che può annoverarsi come lontano precursore del renzismo; gara che Renzi neanche ha tentato, sostituendovi la più urticante «rottamazione» rivelatasi alla fine positiva intuizione. Il ragionamento è stato che più si sarebbe scesi a patti con i “vecchi”, più la leadership ne sarebbe stata condizionata, pena il fallimento stesso dell’operazione. Il tutto si sarebbe trasformato nell’ennesima lotta interna per il potere nel partito. Sarebbe stata un’altra tappa del pendolo post pci: una volta prevalgono i partitisti, la volta dopo gli ulivisti, una volta Gargonza, l’altra il Lingotto. Ci voleva uno al di fuori della storia, dei retaggi, dei rancori accumulati nel più che ventennale gruppo dirigente svoltista, per non farne un’ennesima tappa e chiudere definitivamente con quegli strascichi. «Renzi? Può essere un buon veleno per topi», la fulminante battuta-aspettativa di Occhetto, che di quei retaggi è vittima, primus inter pares.
I DUELLANTI
La vittoria renziana è stata possibile anche per l’offuscarsi dei due cavalli di razza Veltroni e D’Alema, che fin quando sono rimasti in sella e in pista hanno evitato che il Pd diventasse un partito asfittico e minoritario, hanno, come si diceva una volta, esercitato l’egemonia culturale e politica della sinistra e nella sinistra. Il più grave errore di Bersani, è stato forse quello di avere acceduto alla rottamazione di entrambi, aprendo la diga all’irrompere di altri personaggi storie culture. E mostrando anche fisicamente che la storia di quella sinistra post comunista è rinsecchita, sterile, stenta a rigenerarsi (dopo D’Alema e Veltroni, cavalli di razza a sinistra non se ne vedono, mentre i Renzi, i Franceschini, i Letta appaiono di gran lunga più attrezzati dei Cuperlo e compagnia).
Tutti in coda, iscritti dem e azzurri delusi: «Speriamo bene». Un voto di massa dopo anni di trend in calo e voglia di rottamazione
ROMA «L’altra volta ho votato Bersani e sono rimasto deluso. Stavolta ci riprovo con Renzi e speriamo bene»: Angelo, 78enne toscano trapiantato a Roma, sintetizza così la democrazia declinata ieri dal popolo delle primarie. Che, in tutt’Italia, si è messo in fila all’ingresso dei circoli democrat o ai gazebo allestiti nelle principali piazze, per scegliere chi dovrà guidare il Pd, tra Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e Pippo Civati.
GLI SPOSI
Come la coppia di freschi sposini che, subito dopo il fatidico sì, si è recata al seggio di Rignano sull’Arno, il paese di Renzi: lei in bianco, lui raggiante, sono stati omaggiati da un applauso dei presenti prima di entrare in cabina e votare. Perché, nonostante la stanchezza per la politica, la fragilità dei partiti, gli elettori di centrosinistra credono che la partecipazione conti ancora.
SCHEDE ESAURITE
Anche nei lembi più sperduti della provincia italiana, da Bagnolo Po, nel Rovigiano, dove la dotazione di 50 schede si è quasi esaurita a metà mattinata, a Filandri, nel Vibonese dove le schede non sono mai arrivate e gli elettori sono rimasti in fila davanti al seggio chiuso. Ma anche in questi casi, disagi e proteste hanno indicato che il popolo delle primarie non intende arrendersi alla disaffezione per la politica. Non ancora almeno. «Sono iscritta al Pd e finché potremo scegliere i nostri leader, le cose andranno bene», diceva Barbara, 41 anni, uscendo dal seggio romano del quartiere Aurelio.
EX PDL
C’è chi, come Marco, 39 anni, si è iscritto al Partito democratico proprio per votare Renzi: «Mi ha convinto a fare questo passo». O chi, come il cinquantaduenne Andrea, libero professionista, pur non avendo alcuna tessera da quattro anni si mette in fila per dare il proprio contributo: «Prima votavo a destra. Poi ho capito che Berlusconi non rispondeva ai principi etici consoni a un legislatore. L’anno scorso ho scelto Bersani, oggi preferisco Civati». Che piace a tanti, soprattutto ai giovani. Martina, 22 anni, ieri attendeva sotto la pioggia al gazebo romano di piazza Cola di Rienzo: «Per senso civico – spiegava – anche se devo ancora scegliere chi votare. Il cuore mi dice Civati, ma rischio di sprecare il voto. E allora opterò per Renzi». A due passi, c’era Marta, 24 anni, indecisa invece tra Civati e Cuperlo: «E’ uno strazio. Lo so che poi alla fine decideranno loro, al posto nostro, ma ci voglio provare lo stesso».
IDENTITÀ IN GIOCO
Chi opta per Cuperlo, parla della necessità di «mantenere l’identità storica del partito, contro il post-modernismo di Renzi». Ma è proprio a Renzi che guardano i più. «La partecipazione è importante, anche se non sono entusiasta. Ho votato Renzi alle scorse primarie e confermo il mio voto. Spero sia almeno il detonatore di un cambiamento virtuoso», auspicava Gino, 40 anni, in fila a piazza del Popolo. Casomai con un po’ di sano pragmatismo, come Simone, tedesca che ha trascorso in Italia il tempo di crearsi una famiglia: «Tutti i candidati hanno qualcosa di interessante da dire, ma Renzi ha maggiori possibilità di realizzare quello che dice». Al suo fianco, la figlia diciannovenne: «Voglio Renzi segretario e sono qui testimoniare il mio supporto al Pd». Che, tessere o non tessere, ora è chiamato a rispondere alle istanze di chi, ancora una volta, si è messo in fila per dargli un’altra opportunità.