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Data: 09/12/2013
Testata giornalistica: Il Tempo
Un Dc si mangia i comunisti. Ai seggi quasi 3 milioni di elettori, l’ex rottamatore Renzi "smacchia" Cuperlo e Civati

Il cerchio si chiude. Matteo Renzi si prende il Pd, vincendo le primarie e succedendo a Guglielmo Epifani nel ruolo di segretario del Nazareno. L’ex «rottamatore» riesce a scaldare i cuori degli elettori democratici, portandone alle urne quasi tre milioni. Oltre ogni più rosea previsione. Un dato in linea con le primarie del 2009, quelle del duello tra Bersani e Franceschini per la segreteria. Renzi stravince con percentuali bulgare, sfiorando il 68% e lasciando le briciole agli sfidanti, Gianni Cuperlo e Pippo Civati.

«Giornata difficile da dimenticare», commenta a caldo su Twitter Renzi, che manda in soffitta gli eredi della cultura politica del Pci. Tutti rottamati, da Walter Veltroni - ma nel suo caso volontariamente - a Pier Luigi Bersani, passando per l’acerrimo nemico Massimo D’Alema. Una volta c’erano Palmiro Togliatti, Nilde Iotti, Enrico Berlignuer. Adesso c’è lui: un ex popolare alla guida del partito dei discendenti del Sol dell’Avvenire. L’unico ex Ds ancora in campo è Nicola Zingaretti, governatore del Lazio, anagraficamente e politicamente giovane, in grado - si sussurra al Nazareno - di guidare in un giorno neanche troppo lontano la riscossa. Ma il presente è lui, Renzi. Per i Dem è una svolta epocale: il sindaco di Firenze è il primo segretario non comunista eletto dalla base.

Renzi li ha fatti fuori tutti, i comunisti, col consenso della base, forse un po’ inconsapevole. La nomenklatura - D’Alema e Bersani in primis, ma anche Fassina - si lecca le ferite: impegnerà i prossimi mesi a chiedersi come sia stato possibile che un partito, il Pd, per un buon 70% formato da ex Ds sia finito in mano a un ex popolare. Matteo Renzi non è mai stato comunista. Ma neanche democristiano: troppo giovane per averla vissuta, la Balena Bianca. La sua famiglia ha però forti tradizioni scudocrociate essendo stata impegnata nella sinistra Dc. Lui muove i primi passi nello scoutismo mentre è liceale al Dante di Firenze. Poi decide di impegnarsi direttamente in politica nel 1996: studia Giurisprudenza e contribuisce alla nascita in Toscana dei Comitati Prodi, iscrivendosi al Partito Popolare, di cui diventa segretario provinciale tre anni dopo. Poi la trasmigrazione nella Margherita, di cui è coordinatore fiorentino nel 2001 e provinciale nel 2003. Una carica, quest’ultima, che gli vale la candidatura alle provinciali - che vincerà nel 2004 con il 58,8% - imposto dalla partitocrazia.

Renzi nel frattempo si laurea con una tesi dal titolo Firenze 1951-1956: la prima esperienza di Giorgio La Pira sindaco . Già, La Pira: uomo di fede e di speranza che infranse gli schemi, conquistando Palazzo Vecchio e trascinando la Dc al 36,6%. Un riferimento culturale non casuale. Così come non è casuale la citazione di Baden Powell sulla biografia ufficiale pubblicata sul proprio sito: «Lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato». Perché a Renzi la Provincia non basta. Per cambiare deve alzare il tiro. Nel 2008 si candida contro tutto e tutti alle primarie per Palazzo Vecchio: le stravince col motto «O cambio Firenze o cambio mestiere e torno a lavorare» e nel 2009 diventa sindaco.

È uno fuori dagli schemi, Renzi. Un corpo estraneo alla cultura Pci-Pds-Ds. Nel 1994 partecipa a La Ruota della Fortuna di Mike Bongiorno e vince 48 milioni di lire. Il 6 dicembre 2010 va a trovare l’allora premier Silvio Berlusconi ad Arcore per «discutere di alcuni temi legati all’amministrazione di Firenze». Succede il finimondo, con tutto l’establishment bersaniano che lo accusa di intelligenza col nemico e d’essere di destra. Ma se è vero ciò che scrisse Lapo Pistelli («Leggete I Barbari - Saggio sulla mutazione di Alessandro Baricco. È già tutto scritto lì»), Renzi incarna la mutazione culturale della politica e della sinistra. Veloce, imprevendibile, capace di usare il marketing e la comunicazione - tv e giornali, ma anche dei libri e dei social network - come nessun altro esponente di centrosinistra in precedenza, in grado di scartare da una posizione a un’altra senza lasciarsi inchiodare dalle contraddizioni. Scarta e strappa in continuazione: il premier Letta ne sa qualcosa. Spesso in contrapposizione con i sindacati, una volta disse che se fosse stato un operaio Fiat di Pomigliano d’Arco avrebbe votato «senza se e senza ma» al referendum proposto da Marchionne. Perfetto interprete di Machiavelli: il consenso si basa sull’amore o sulla paura. La polarizzazione dei giudizi è una precondizione per imporsi. Motiva la squadra, la cambia spesso, si guarda dal replicare gli errori dei precedenti «sindaci d’Italia» Rutelli e Veltroni, mischia culture variando i riferimenti simbolici da De Gasperi al comunista Michele Auzzi, fino ad accettare l’altra sera la bandiera del Pci regalatagli da un militante a Empoli: «Mi dà la bandiera per dire che lui mi vota, ma ha paura che poi D’Alema mi faccia fuori».

Ma è stato lui a farli fuori. Dalla Leopolda del novembre 2010 a oggi è stato un crescendo. Quattro appuntamenti cruciali, uno l’anno: «Prossima fermata Italia», «Big Bang», «Italia Obiettivo Comune», «Diamo un nome al futuro». Un’epopea capace di creare consenso attraendo migliaia giovani amministratori locali di tutte le anime Dem. La nuova classe dirigente. Ma anche parlamentari ed eurodeputati. Una base pronta a polarizzarsi attorno a lui per sostenerne la candidatura a segretario. La rottamazione, il rinnovamento della classe dirigente, l’azzeramento delle correnti, l’abbattimendo dei costi della politica e delle sue liturgie, la riforma dello Stato e del sistema-Paese, l’uso di parole d’ordine fino a poco tempo fa prerogativa solo del centrodestra, l’azzardo nella costruzione di nuove alleanze e strategie. Un successo nato da una sconfitta. Quella alle primarie per la premiership dello scorso anno: vinse Bersani portato dalla nomenklatura di partito, ma nelle regioni «rosse» - Toscana, Umbria, Marche - non ci fu storia: Renzi sbaragliò il campo, interpretando una richiesta di cambiamento che nella base c’era da tempo

Commentando i risultati Renzi ha detto che «questa non è la fine della sinistra ma di un gruppo dirigente della sinistra. Noi stiamo cambiando i giocatori, non stiamo andando dall'altra parte del campo. Noi - ha spiegato - non sostituiremo quel gruppo dirigente con un altro. I voti che abbiamo avuto sono per scardinare il sistema, non per cambiare i loro, con i nostri». E con una battuta ha «rottamato» la sua corrente: «Da stasera è sciolta, vedo disperazione in giro... Si può essere riformisti e non essere noiosi: si possono scaldare i cuori la capacità concreta di tenere insieme il buon senso con l'entusiasmo, si può dare un'anima al riformismo». Poi ha avvertito: «Da oggi non c’è più alibi per il cambiamento. Ai teorici dell'inciucio diciamo: vi è andata male» ed ha aggiunto che «in un paese civile non basta l'iscrizione a un sindacato per fare carriera. Anche il sindacato deve cambiare con noi. Il meglio - ha concluso - deve ancora venire».

Oggi Renzi è la nuova sinistra. Ma la sinistra sopravviverà a Renzi o stavolta sarà lei a strappare?

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