Il faccia a faccia di ieri mattina è andato malissimo. C’è chi giura di aver sentito urla provenire dallo studio del premier. Enrico Letta e Matteo Renzi, nemici senza più finzioni. E oggi si svolgerà la madre di tutte le battaglie.
Il segretario del Pd è determinato ad «asfaltare» - secondo l’espressione di alcuni dei suoi, preoccupati per la furia di Matteo: «Ma quando il toro parte non lo fermi più» - l’attuale inquilino di Palazzo Chigi. Il premier, per una volta un po’ Don Chisciotte e un po’ Capitan Fracassa, è deciso a rompere la tela tessuta dal leader rivale. E vuole un voto della Direzione del Pd, senza escludere di portare la pratica in Parlamento, sfidando il suo partito a sfiduciarlo.
«Ma Enrico - gli ha detto Renzi arrivato a Palazzo Chigi a bordo di una Smart blu sgommante - come fai a non vedere che l’intero Paese ormai si aspetta un nuovo governo e che tutti i partiti della coalizione pretendono una grande svolta?». Risposta, quella che poi darà anche in conferenza stampa nel pomeriggio: «Matteo, io sono un uomo delle istituzioni. E sarà il Parlamento il luogo nel quale si dovranno prendere le decisioni. Io gioco a carte scoperte e tutti i cittadini devono vedere ciò che accade». Matteo: «I cittadini vedono una ripresa che non c’è e una scossa che non arriva». Enrico, che ieri alle otto del mattino è andato dal barbiere di Montecitorio per rendere la propria nuca liscia come un elmetto: «Poche chiacchiere. Se vuoi il mio posto lo devi dire chiaramente».
Sia l’uno che l’altro ci tengono a non farsi vedere prigionieri di logiche di Palazzo. Enrico non vuole apparire come il sottoscrittore di un’intesa spartitoria: «Non voglio intrighi, protagonismi e bassa politica». E comunque vada a finire - spiegano i suoi - è convinto che questo patrimonio di credibilità gli resterà. Alle sei di sera, all’ora del crepuscolo, scatta la sortita con la conferenza stampa a palazzo Chigi. Il premier (forse uscente) mostra grafici, tabelle, illustra un programma «fino al 2018». Propone il Letta-bis: «Un aggiustamento non è sufficiente. Serve una cosa tutta nuova e di ampio respiro». Parole accolte con furia e sarcasmo da Renzi, chiuso nel suo gabinetto di guerra al Nazareno insieme a Lorenzo Guerini, Luca Lotti e Graziano Delrio: «Questo discorso è il testamento di Letta».
TRADIMENTI
Intanto, ad ascoltare Letta in quella che sembra una conferenza stampa di commiato, ci sono commessi, funzionari, dipendenti. Tutto il suo staff. Alcuni con gli occhi lucidi. Ma c’è anche, fuori di qui, un partito, il partito di Enrico, da cui si sente tradito. Ma che non disconosce: «Io sono un uomo del Pd. E voglio la costruzione di questo nuovo patto di governo insieme al Pd. Se faccio scattare il rilancio tardi, è perché ho ascoltato l’invito di Renzi ad aspettare che fosse avviata la legge elettorale». E però, l’impressione che Renzi ha avuto di Letta è stata quella di una persona «un po’ lunare». Il segretario del Pd ha spiegato ai suoi: «Enrico sta chiuso nel suo bunker e non vede che fuori da lì chiedono tutti un cambiamento». Allo stesso tempo, però, lasciando all’ora di pranzo Palazzo Chigi - mentre sotto al portone giornalisti e curiosi motteggiano: «Vedremo uscire prima Letta di Renzi...» - il segretario del Pd si è portato l’impressione di un Letta determinato, ma non impossibile da convincere a fare un passo indietro. Le speranze dei democratici hanno subito cominciato a indirizzarsi verso il presidente Napolitano: «Quando torna dal Portogallo? Riuscirà almeno lui a far capire a Enrico che questa testardaggine fa male sia a se stesso sia al Paese?». Nella notte scattano i pontieri, Dario Franceschini è il più determinato a frenare Enrico.
La moral suasion dovrebbe servire a evitare che Letta arrivi alla conta in Parlamento, dove l’immagine del Pd che sfiducia il suo premier sarebbe devastante. Quasi peggiore delle raffiche dei 101 franchi tiratori che abbatterono nell’aprile scorso Romano Prodi avviato al Quirinale. Letta non esclude di tirare il freno. C’è una frase pronunciata nella Sala dei Galeoni che sembra accreditare questa possibilità: «Aspetto di capire come verranno accolte le mie proposte. Per buttare giù un governo basta l’evidenza che non c’è più consenso».
IL RISCHIO
Letta, un po’ Don Chisciotte e un po’ Capitan Fracassa, lancia a Renzi una sfida sulla «qualità»: «Un metodo con un basso tasso di protagonismo e un alto tasso di concretezza». Con la sua conferenza stampa, il premier ha voluto dimostrare «l’assurdità e il sacrilegio di buttare a mare», come dicono nel suo staff, «dieci mesi di lavoro in cui sono state acquisite conoscenze e competenze importanti». Da qui, l’appello alla continuità. «Ho preso un Paese con il segno meno - scandisce con orgoglio Letta - e ora è partita la crescita e lo spread è sotto i duecento punti». Segue appello: «Non facciamo come capita spesso all’Italia, che come termina un’emergenza ci si incasina. La crisi rischia di finire male».Renzi non si fa impressionare dalla tigna e dal know how del rivale. «Non è che noi oggi - ribatte Matteo - in tutte le riunioni che stiamo avendo parliamo di cose a vanvera. Idee da mettere in campo ne abbiamo a tonnellate». Ma nessuno dei renziani nasconde il pericolo che loro e il partito stanno correndo - basta vedere i sondaggi che raccontano un’avversione verso la staffetta capace di raggiungere il 70 per cento - e che è quello di una sinistra che ricade nel vizietto del cannibalismo.
I DURI
Ma riecco Letta. Dimostra di sapersi battere. Risponde alla sfida di Matteo contrattaccando. Fa finta che nulla accadrà: «Martedì», annuncia, «incontrerò l’associazione Rete imprese». Quasi maramaldeggia quando afferma ironizzando su un vecchio hashtag di Renzi (#enricostaisereno): «Il mio hashtag è io sono sereno anzi Zen». Di più: «Comunque finisca questa vicenda potrò andare a insegnare in qualsiasi monastero orientale». Renzi, presumibilmente, sarebbe felicissimo di vederlo finire in un luogo remoto. A meno che Enrico non voglia fare il ministro degli Esteri, ma lui ha rifiutato seccamente: «Non sono interessato».