ROMA Si riprenderà giovedì in commissione Lavoro del Senato. Riparte il cammino del Jobs act, il disegno di legge delega di riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali presentato dal governo Renzi. E si riparte esattamente da dove ci si era fermati, compresi dubbi e nodi da sciogliere. La pausa agostana non ha, infatti, ammorbidito né avvicinato le posizioni sui temi caldi rimasti in sospeso. A cominciare da quello più ostico e da tempo - per dirla con le parole del ministro Poletti - causa di «scazzottate o legnate» tra chi sostiene una tesi e chi un’altra: ovvero le tutele contro i licenziamenti illeciti previste dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Nei giorni di chiusura del Parlamento l’argomento, tra interviste e dichiarazioni varie, è ritornato più volte sulle pagine dei giornali. Ma di fatto la maggioranza resta spaccata: i centristi moderati (Ncd, Ucd, Sc) insistono nel proporre il ”superamento“ della norma in questione, la maggior parte del Pd non ne vuole sapere. In mezzo c’è il governo che, nonostante la sua orticaria conclamata verso le rappresentanze sociali, non ha tra le sue massime aspirazioni quella di andarsi a impegolare in una battaglia con il sindacato dando il via al tanto temuto autunno caldo. Insomma, la quadra ancora non è stata trovata. Tutti però sono consapevoli che bisogna fare in fretta, e fare bene, non sprecare questa ulteriore occasione. Alzare le barricate da una parte e dall’altra non serve al Paese. Non serve agli oltre tre milioni e duecentomila disoccupati che ogni giorno sperano che sia la #voltabuona. Una buona riforma del mercato del lavoro è la priorità delle priorità, e non solo perché ce lo chiedono le istituzioni europee a partire dalla Bce di Mario Draghi.
I TEMPI
L’obiettivo del governo resta il varo definitivo della legge delega entro la fine dell’anno. Dopodiché ci sono sei mesi di tempo per l’emanazione delle cinque deleghe relative. Il provvedimento finora ancora non ha ricevuto l’ok da parte di nessun ramo del Parlamento. La commissione Lavoro del Senato, presieduta da Maurizio Sacconi (Ncd), lo sta esaminando dall’aprile scorso. Inizialmente si puntava a passarlo all’Aula a luglio ma poi, complice anche l’impegno sulle riforme istituzionali, si è deciso di far slittare il passaggio di consegne (dalla commissione all’Aula) a settembre. Da esaminare in realtà resta solo l’articolo 4 della delega che era stato accantonato (gli altri sono stati tutti approvati e si attendono solo i pareri sugli emendamenti della commissione Bilancio). Si tratta proprio della parte relativa al riordino delle forme contrattuali e quindi anche alla disciplina del recesso e dei licenziamenti.
Oggi i contratti di lavoro sono oltre 40 e la riforma mira a un deciso sfoltimento. La delega prevede la possibilità di introdurre «eventualmente in via sperimentale» il contratto di inserimento con tutele crescenti. Ed è qui che si sta consumando lo scontro tra le varie anime della maggioranza.
SI INDENNIZZO, NO REINTEGRA
Un emendamento del senatore Pietro Ichino (condiviso da tutti i centristi della maggioranza) chiede di lasciare la reintegrazione sul posto di lavoro solo nei casi di licenziamenti discriminatori. La norma è già prevista dalla riforma targata Fornero del 2012, ma lascia una certa discrezionalità al giudice (il governo sta facendo un monitoraggio sugli effetti). L’emendamento Ichino elimina questa discrezionalità. Per gli altri licenziamenti illegittimi si prevede un indennizzo economico via via crescente in base all’anzianità aziendale. Il Pd invece propone un contratto di inserimento a tutele crescenti (che prevede anche retribuzioni tabellari più basse) valido solo per un periodo determinato, al massimo tre anni, dopo di che al lavoratore verranno riconosciute tutte le tutele attuali. Insomma l’applicazione dell’articolo 18 sarebbe solo congelata e durante questo periodo il datore di lavoro potrà licenziare senza motivazione.