PARIGI «La Francia è in guerra»: nelle prime parole c’è già tutto. Davanti ai deputati dell’Assemblée Nationale e ai membri del Senato riuniti in seduta congiunta a Versailles, François Hollande non ha più i toni lirici di un tempo, spazzata via anche la commozione, tenuta a bada l’emozione, il presidente francese veste l’abito del condottiero della nazione. Il tono è marziale, i contenuti forti. Ai cittadini propone un «patto di sicurezza».
L’INTERVENTO
Davanti al «terrorismo jihadista» (mai dirà islamico) che ha osato colpire la Repubblica, «i suoi valori, i suoi giovani», la Francia risponde col fuoco. Stato d’emergenza prolungato per tre mesi, revisione della Costituzione per adattare le emergenze ai tempi moderni, più mezzi a giustizia, polizia, frontiere, richiesta all’Europa di fare la sua parte, all’Onu di votare una risoluzione, a Obama e Putin di allearsi in una guerra mondiale. Hollande cerca l’Unione nazionale, l’Unione sacra della nazione, anche a costo di strapparla alle opposizioni recalcitranti. E allora non esita a fare sue proposte che finora si erano sentite soltanto nelle bocche della destra se non dell’estrema destra: l’esercito di riservisti, la privazione della nazionalità per chi ha doppio passaporto e si macchia di crimini terroristici.
«La nostra Repubblica non è alla mercé di assassini spregevoli», di «vigliacchi», ha detto, rifiutando di parlare di scontro di civiltà: «la Repubblica è viva» e il nemico «non è fuori portata». Dell’attacco a Parigi del 13 novembre, Hollande ha parlato di «azioni di guerra decise e pianificate in Siria, organizzate in Belgio e preparate sul suolo francese con complicità francesi». La risposta è innanzitutto sul campo, ed è già cominciata con i blitz in Siria, che saranno «intensificati» (la portaerei Charles de Gaulle salperà giovedì, «per triplicare la capacità di azione della Francia»).
L’EUROPA
Hollande non ha perso il tono marziale quando ha evocato il ruolo dell’Europa. «Ognuno, ha detto, deve essere davanti alle proprie responsabilità». Hollande ha annunciato che il ministro della Difesa Le Drian si rivolgerà da oggi «ai suoi colleghi europei in base all’articolo 42.7 del Trattato dell’Unione, che prevede che quando uno Stato è aggredito tutti gli stati membri devono dargli solidarietà di fronte all'aggressione». Il terrorismo jihadista, ha detto, è «nemico dell’Europa, non solo della Francia».
Hollande considera inoltre «imperativo che le richieste espresse dalla Francia da tempo trovino ora in Europa una traduzione immediata». In particolare, il presidente francese ha citato «la lotta contro il traffico d’armi, i controlli coordinati e sistematici alle frontiere e l’approvazione entro la fine del 2015 del PNR» ovvero il sistema di schede nominative dei passeggeri dei voli aerei.
SICUREZZA E BILANCI
L’Europa è stata tirata in ballo anche sul bilancio, che deve piegarsi alla sicurezza, e non si farà dettare le priorità da nessun criterio di stabilità. Hollande ha annunciato la creazione di 8.500 posti di lavoro supplementari nei prossimi due anni per polizia, gendarmeria, giustizia e controlli alle dogane. Inoltre ha annullato i previsti taglia di 15mila posti al personale della Difesa, che non subirà nessuna decurtazione «fino al 2019». «Sappiamo cosa significa in termini di bilancio» ha detto Hollande, sottolineando che «in queste circostanze, il patto di sicurezza vince sul patto di stabilità».
All’arco costituzionale, Hollande ha proposto una riforma di due articoli della Costituzione, il 16 e il 36, che regolano i poteri speciali in caso di minaccia alla nazione e lo stato d’assedio. Il presidente vuole dare alla Francia «uno strumento per prendere misure eccezionali, perché questa guerra di un altro tipo richiede un regime costituzionale da stato di crisi». Al governo sarà quindi chiesto di mettersi subito al lavoro per dare più mezzi alla giustizia e permettere, tra le altre cose, di espellere più rapidamente gli stranieri «che rappresentano una minaccia di particolare gravità per la nostra sicurezza». Alla fine, applauso di tutti i parlamentari, che hanno intonato spontaneamente la Marsigliese. Con l’unica eccezione dei due eletti del Front National.
È sempre accaduto all’indomani dei più terribili attentati di matrice fondamentalista che hanno segnato questo inizio di millennio: cordoglio, cortei, solidarietà con le vittime, espressioni di fiducia nell’immancabile vittoria del bene. Dopo l’11 settembre 2001 ci siamo detti tutti americani; e, dopo il 7 gennaio 2015, ci siamo identificati per un momento con i redattori di un settimanale satirico parigino caduti per mano dell’islamismo radicale. Ma la commozione è durata poco. E presto (lo ricordava Paolo Mieli in un editoriale sul “Corriere della sera” di domenica) sono riaffiorati i dubbi, i distinguo e le prese di distanza.
Non vorrei peccare di eccessivo ottimismo, ma l’impressione è che questa volta la mobilitazione popolare dei paesi dell’Occidente contro i massacri perpetrati a Parigi ai danni di normali cittadini e inermi turisti possa assumere una diversa sostanza e una nuova qualità. È mancata, salvo mio errore, l’evocazione delle storiche colpe del colonialismo europeo.
Che certo ci sono state, ma in un’altra era; e non sembrano avere alcun nesso diretto con l’attuale reviviscenza del fondamentalismo islamico. Non abbiamo sentito risuonare le invocazioni dei pacifisti dogmatici, che deplorano giustamente la guerra in quanto tale, ma non ci dicono come affrontarla quando altri la impongono. Tacciono - anche se c’è da scommettere che le risentiremo presto - le voci dei complottisti, pronti a scorgere dietro ogni evento catastrofico un’oscura macchinazione dei poteri forti, palesi e soprattutto occulti. Sembra emergere insomma, anche se la sensazione è appena percettibile e ancora da verificare sul tempo lungo, una più matura e diffusa consapevolezza dei rischi che le nostre società stanno correndo e della necessità di risposte efficaci. Una presa di coscienza ben esemplificata dal discorso solenne e drammatico di François Hollande al Parlamento francese riunito per l’occasione nella storica sede di Versailles (evocatrice di antiche grandezze, ma anche di brucianti sconfitte). Partendo dalla constatazione di un conflitto già in corso, il presidente - dopo aver inanellato una serie di errori - ha di fatto invocato un regime di “union sacrée” adatto appunto ai tempi di guerra; e si è spinto a prospettare a breve una riforma della Costituzione che, pur salvaguardando i fondamentali diritti di libertà, dia all’esecutivo poteri più incisivi per affrontare le emergenze. Vedremo fra poco le reazioni dei partiti, soprattutto di quelli d’opposizione. Ma quelle dell’opinione pubblica non dovrebbero essere sfavorevoli.
Qui finisce, però, l’area di competenza delle politiche interne e dei movimenti d’opinione. E comincia la responsabilità degli Stati in quanto soggetti di politica internazionale: in primo luogo delle potenze maggiori, che il caso ha voluto riunite, proprio in questi giorni, per il G20 in Turchia; poi di tutti i paesi più minacciati dall’emergenza fondamentalista. Una coalizione anti-Isis esiste per la verità da più di un anno. E vi partecipano, anche se con compiti diversi e diversi gradi di impegno, paesi di cinque continenti, dalle due superpotenze militari, Usa e Russia, agli Stati arabi cosiddetti moderati, dalle ex potenze coloniali europee ai paesi del Commonwealth. Ma la sua efficacia è stata finora limitata non solo dalla riluttanza dei suoi membri a schierare truppe sul terreno (riluttanza peraltro comprensibile dopo il disastro della “Coalition of willing” messa insieme da Bush junior contro l’Iraq di Saddam nel 2003), ma anche dalla compresenza di strategie diverse e dalla difficoltà di applicarle a un teatro come quello del Medio Oriente, dove divisioni religiose, rivalità geopolitiche e corposi contrasti di interesse si mescolano in un viluppo inestricabile.
Il problema non sta dunque nel numero dei paesi partecipanti né nella distribuzione dei compiti. Sta invece nella condivisione delle strategie e degli obiettivi: obiettivi che in una coalizione così ampia non possono essere che limitati e specifici. Se l’urgenza è quella di cancellare o di neutralizzare il sedicente califfato, l’importante è congelare i contrasti fra i membri del fronte anti-Isis e scegliere assieme i mezzi e i tempi più adatti per raggiungere lo scopo: bloccando i flussi di risorse che permettono allo Stato islamico di finanziarsi; ed evitando - lo ha ribadito anche ieri il nostro presidente del Consiglio - le azioni non coordinate, dettate da logiche nazionali, in stile Suez 1956, come quelle intraprese a suo tempo in Libia da Francia e Gran Bretagna. Uno stretto, ancorché temporaneo, accordo operativo fra i paesi coinvolti, anche loro malgrado, nel contrasto al jihadismo può rendere l’operazione non solo più efficace, ma anche più condivisa da parte delle opinioni pubbliche, oggi forse meglio disposte di ieri ad accantonare pregiudizi e piccoli egoismi di fazione o di nazione.
Il discorso vale naturalmente anche per l’Italia. Inutile dividersi sull’opportunità e sui rischi di un possibile accresciuto impegno sul piano militare. Rischi ne corriamo comunque, anche a prescindere dall’imminente giubileo. Pensare di cavarsela scaricandoli sui vicini sarebbe illusorio. Meglio adoprarsi per favorire l’accordo fra gli alleati nella lotta al terrorismo e disporsi a vivere senza troppe lacerazioni i tempi difficili e precari che purtroppo ci aspettano.